venerdì 25 settembre 2009

ARANCIA MECCANICA


Un film di Stanley Kubrick
Soggetto: dall'omonimo romanzo di Anthony Burgess
Sceneggiatura: Stanley Kubrick
Fotografia: John Alcott
Musica: Ludwig van Beethoven (Sinfonia n. 9 in re minore op. 125; Edward Elgar (Pomp and Circumstance marce n. 1 e 4); Gioacchino Rossini (Ouvertures da La gazza ladra e dal Guglielmo Tell); Terry Tucker (Ouvertures to the Sun); Henry Purcell (Music of the Funeral of Queen Mary); James Yorkston (Molly Malone); Arthur Freed e Nacio Herb Brown (Singin’in the Rain); Nicolaj Rimsky-Korsakov (Shéhérazade); Erika Eigen (I Want to Marry a Lighthouse Keeper)
Montaggio: Bill Butler
Costumi: Milena Canonero
Scenografia: John Barry
Pitture e sculture: Herman Makkink, Cornelius Makkink, Liz Moore, Christiane Kubrick
Interpreti: Malcom Mc Dowell (Alex De Large), Patrick Magee (Mr. Alexander), Adrienne Corri (sua moglie), Michael Rates (il capoguardia), Warren Clarke (Dim), Carl Duerign (dott. Brodski), Paul Farrell (il barbone), Clive Francis (Joe), Michael Glover (il direttore della prigione), Miriam Karlin (la signora dei gatti), James Marcus (Georgie), Michael Tarn (Pete), Miriama Karlin (donna dei gatti).
Produzione: Stanley Kubrick, Warner Bros., Hawk Film, Polaris Production
Origine: USA
Durata: 1971
Anno di edizione: 138'

Sinossi
Alex De Large e i suoi tre Drughi, Dim, Pete e Georgie, affrontano prima un barbone, poi i membri della gang rivale di  Billy Boy, invadono la casa di uno scrittore, Mr. Alexander, e ne violentano la moglie. Il giorno seguente, mentre i suoi genitori sono al lavoro, Alex riceve la visita di Deltoid, un assistente sociale, poi incontra due ragazze in un negozio di dischi e con esse consuma un’orgia sfrenata. Con la sua gang, sulla quale riafferma la propria supremazia, Alex invade la casa della donna dei gatti, che riesce ad avvertire la polizia prima che lui la uccida. Viene arrestato e condannato a quattordici anni di prigione, ma dopo due anni accetta di affrontare una terapia introdotta dal governo per lottare contro la criminalità. Dopo che gli è stato praticato il lavaggio del cervello e ha chiesto quindi di collaborare, viene liberato, ma non può più sopportare la violenza. Scopre che un inquilino ha preso il suo posto presso i suoi genitori, viene aggredito dai barboni e viene pestato dai suoi ex-Drughi ora diventati poliziotti. Trova rifugio a casa di Mr. Alexander, il quale, per vendicarsi e per mettere il governo in imbarazzo, spinge Alex al suicidio. Ne esce vivo, viene curato in ospedale e si vede offrire da parte del Ministro un lavoro lucroso che gli permetterà di dedicarsi nuovamente ai suoi istinti violenti.

Stanley Kubrick: alcune considerazioni

Kubrick è probabilmente l’autore, insieme ad Orson Welles, per il quale viene usato il più grande numero di aggettivi o superlativi. Personaggio osannato e mitizzato, Kubrick ha circondato la propria vita di un’aurea di mistero che lo ha reso uno dei registi più “inafferrabili” della storia del cinema. In un mondo in cui tutti vogliono andare ad Hollywood, lui fin dagli anni Sessanta fugge dalla capitale del cinema mondiale e si rifugia in Inghilterra dove vive e lavora fino all’improvvisa morte. E’ questa una scelta che colpisce: per realizzare i suoi film in completa libertà, sia economica che creativa, Kubrick si isola in un grande castello dal quale esce raramente e sempre di nascosto. Produttore delle sue opere conquista quella libertà che quasi nessuno ad Hollywood conosce e, al tempo stesso, si circonda di un grande staff di collaboratori come fosse il presidente di una grande industria. In fondo per rendersi indipendente Kubrick ha trasformato se stesso in industria: sceglie e progetta i film che vuole fare; collabora alla sceneggiatura; sovrintende alla fotografia, al montaggio, alla colonna sonora, al lancio pubblicitario, alla scelta degli attori e a quella dei doppiatori, nei paesi in cui il film non viene presentato in lingua originale.
E’ stato detto che Kubrick vede la vita come una grande partita a scacchi (gioco al quale lo ha iniziato il padre, attorno ai tredici anni), e cioè come risposta a una serie di regole e rituali che devono portare istituzionalmente a un vinto e a un vincitore: un gioco che rimanda quindi, a sua volta, alla stessa logica che presiede alla guerra. Entrambi hanno infatti come fine la sopraffazione dell’avversario. Ridurre il cinema di Kubrick a una formula – sia pure a quella, indubbiamente pertinente, dell’homo homini lupus di Hobbes – non è giusto. La preistoria aggressiva di 2001 Odissea nello spazio va in questo senso, non c’è dubbio, ma ha ragione Sandro Bernardi a individuare come “costante del cinema di Kubrick la ricerca ostinata della contraddizione”: una delle più evidenti è senz’altro presente in Arancia meccanica, ed è quella tra Natura e Cultura. Alla logica istintiva della guerra, della sopraffazione, di una concorrenza portata ai suoi limiti estremi, l’uomo kubrickiano oppone regole che appaiono inevitabilmente inadeguate o addirittura controproducenti. In Arancia meccanica sono in gioco istituzioni come la chiesa, la prigione e la scienza, ma le contraddizioni hanno anche altre forme: fra l’invasione dei mezzi di comunicazione e la necessità del loro annullamento (Il dottor Stranamore) o la loro falsità (Full Metal Jacket); fra l’ordine e il rispetto dell’uomo (Orizzonti di gloria; Spartacus); fra l’erotismo e la socialità, nonché fra cultura europea e cultura americana (Lolita); fra la famiglia e l’inconscio (Shining); fra naturale pulsione di violenza e la difesa repressiva della società (Arancia meccanica). Per Kubrick la cultura, nelle sue diverse forme (e quindi anche la scienza) rivela l’incapacità dell’uomo a risolvere il multiforme contrasto con la propria natura: i rimedi che essa propone sono di volta in volta marginali, goffi, disperati, iprocriti, intutili. Kubrick sottolinea ripetutamente questa inadeguatezza, con forme che sfociano a tratti in una comicità acre, sarcastica, senza vie d’uscita. Il suo è un linguaggio freddo, razionale, conseguente, che viviseziona spietatamente le contraddizioni, con una messa in scena curata e levigata sin quasi alla perfezione e una costruzione del racconto che toglie spazio alle emozioni per riservarlo alla lucidità della riflessione.

Il contesto culturale

Più di un critico ha trovato in Arancia meccanica qualcosa di voltairiano – ovviamente il riferimento va al Candido – oltre che di swiftiano (se non altro perché il cervello viene ribattezzato “Gulliver”). Il cinema di Kubrick (e lo dimostra in modo esemplare Barry Lindon) ha una vocazione illuminista quasi settecentesca, che pone ogni film su un doppio binario, sospeso fra attualità e astrazione. Arancia meccanica, per esempio, è fortemente debitore ai fermenti culturali e storici del suo tempo, ma al tempo stesso, lontano da ogni lettura strettamente sociologica, propone una visione della vita che tende a superarli e recuperarli nel discorso assai più ampio sulla natura umana e sul potere.
A partire dagli anni Sessanta si “respira” un’aria di incertezza e di insofferenza, di sbandamenti, tutto ciò che la stampa comincia a definire come caduta dei valori. Si assiste ad una montante insoddisfazione che sfocia nella cultura della contestazione che infiamma tutto il decennio. In questo contesto anche le arti plastiche, il cinema, la musica, subiscono delle importanti trasformazioni (e solo per citare quelle forme d’arte di cui si avvertono gli echi in Arancia meccanica). Nascono in questo periodo la Pop Art; nella musica si affermano da una parte i Beatles e i Rolling Stones e dall’altra si assiste al crescente utilizzo dell’elettronica: Stockhausen, le dissoluzioni sonore di György Ligeti, le sperimentazioni sul rapporto musica/rumore di John Cage. Anche il cinema vive questa trasformazione e non solo per i temi affrontati: alla fine degli anni Cinquanta la Nouvelle Vague mette in crisi il sistema narrativo tradizionale, la cura della bella confezione, la convenzionalità dei modi di raccontare fine a se stessi; subito dopo il Free Cinema propone tematiche incentrate sull’insoddisfazione e sull’insofferenza dei “giovani arrabbiati”; nello stesso periodo si consuma anche la ribellione degli Off-Hollywood.
E’ alla fine di un decennio così importante e complesso che Kubrick decide di realizzare Arancia meccanica.

Il libro e il film
Come succede quasi sempre Kubrick realizza i suoi film a partire da un testo preesistente, per Arancia meccanica si ispira all’omonimo libro di Anthony Burgess, pubblicato nel 1962.
Il tratto caratteristico dell’opera letteraria è l’idioma inventato dall’autore che gioca su una curiosa e divertente commistione di linguaggi diversi – dallo slang a un recupero di lingue straniere (fra cui prevale il russo) – cui Burgess dà il nome di Nadsat: così una ragazza viene chiamata devotchka, karasciò sta all’incirca per l’americano OK e via dicendo. Si tratta di un linguaggio artificiale e innaturale, che non rispetta i canoni della comunicazione convenzionale, ma si affida a riferimenti estemporanei, ad allusioni che aprono continuamente il testo verso una dimensione inusuale ed elastica. Gli anni Sessanta sono del resto gli anni della proliferazione linguistica, della moltiplicazione mediale, di uno sfrangiato processo di appropriazione del mondo attraverso linguaggi che, per essere veramente diversi, non possono adagiarsi sulle regole del linguaggio dominante. 
Kubrick restituisce nel film tutta la ricchezza del linguaggio costruito da Burgess, ma più in generale possiamo osservare come il regista rispetti sostanzialmente il testo di partenza. Un cambiamento sostanziale si riscontra solo nello spostamento dell’età anagrafica del protagonista: nel libro è un quindicenne, nel film ha qualche anno di più.
A proposito del film ha scritto Anthony Burgess:
“Ho visto A Clockwork Orange di Stanley Kubrick a New York: per entrare ho dovuto fare a gomitate come tutti gli altri. Mi è parso che lo spettacolo meritasse tanta ressa: è in tutto e per tutto un film di Kubrick, tecnicamente brillante, arguto, puntuale, poetico, capace di schiudere allo spirito nuove prospettive. Sono riuscito a guardare il film come una totale ricostruzione del mio romanzo, e non come una semplice interpretazione; non è azzardato affermare che si tratta dell'Arancia meccanica di Stanley Kubrick, e questo è il più grande omaggio che io possa rendere alla maestria del regista. Ma resta il fatto che il film è nato da un libro, e ritengo che alcune osservazioni sul film inevitabilmente mi riguardino. In termini filosofici, nonché teologici, l'arancia di Kubrick è frutto del mio albero. Scrissi Arancia meccanica molto tempo fa, nel 1961 e ho qualche difficoltà a fornire delucidazioni su quello scrittore ormai lontanissimo che, dovendo guadagnarsi da vivere, era arrivato a produrre cinque romanzi (tra i quali questo) in quattordici mesi. Il titolo è la cosa più facile da spiegare. Nel 1945, al ritorno dal fronte, in un pub di Londra ho sentito un cockney ottantenne dire di qualcuno che era "sballato come un'arancia meccanica" (queer as a clockwork orange). L'espressione m'incuriosì per la stravagante mescolanza di linguaggio popolare e surreale. Per quasi vent'anni avrei voluto utilizzarla come titolo per qualche mia opera: ne ho avuto poi l'occasione quando ho concepito il progetto di scrivere un romanzo sul lavaggio del cervello. La stampa britannica aveva parlato con una certa insistenza dell'aumento della criminalità. I giovani alla fine degli anni Cinquanta erano agitati e cattivi, insoddisfatti del mondo del dopoguerra, violenti e distruttivi, ed è a loro (poiché sono piu' riconoscibili dei malviventi dei tempi andati) che tanti fanno riferimento quando parlano di crescente criminalità. Che fare di questi ragazzi? La prigione o i riformatori non fanno che peggiorarli: allora perché non risparmiare il denaro dei contribuenti sottoponendoli a un facile condizionamento, a una sorta di terapia del disgusto, che generi in loro un'associazione tra l'atto di violenza e il malessere, la nausea, o persino evocazioni di morte? Furono in molti ad approvare questa proposta (che all'epoca non era una proposta del governo, ma semplicemente un'idea espressa da singoli teorici, per quanto influenti). Arancia meccanica doveva essere una sorta di manifesto, addirittura una predica, sull'importanza di poter scegliere. Il mio eroe, o antieroe, Alex, è veramente malvagio, a un livello forse inconcepibile, ma la sua cattiveria non è il prodotto di un condizionamento teorico o sociale - è una sua impresa personale, in cui si è imbarcato in piena lucidità. Alex è cattivo, e non solo traviato, dunque in una società organizzata in modo corretto azioni crudeli come le sue devono essere punite. Però la sua cattiveria è umana: negli atti aggressivi possiamo riconoscere potenzialita presenti in noi, che per il cittadino non criminale si concretizzano nella guerra, nell'iniquità sociale, nella cattiveria che si esercita in famiglia, nei sogni che si coltivano nel proprio cantuccio. Alex rappresenta l'umanità in tre modi: è aggressivo, ama la bellezza, si serve del linguaggio.
E' paradossale che il suo nome si possa intendere come "senza parola", mentre egli possiede un intero vocabolario inventato, suo personale, un gergo di gruppo. Eppure non spende neanche una parola per ciò che riguarda la gestione della comunità, o l'organizzazione dello Stato: per lui quest'ultimo non è che un semplice oggetto, una cosa lontana come la luna, anche se meno passiva. Da un punto di vista teologico, il male non è misurabile. Eppure io credo nel principio che un'azione possa essere più malvagia di un'altra, e che l'atto ultimo del male sia la disumanizzazione, l'assassinio dell'anima - il che ci riporta a parlare della possibilità di scegliere tra azioni buone e cattive. Imponete a un individuo la possibilità di essere solo e soltanto buono, e ucciderete la sua anima in nome del bene presunto della stabilità sociale.  La mia parabola e quella di Kubrick vogliono affermare che è preferibile un mondo di violenza assunta scientemente - scelta come atto volontario - a un mondo condizionato, programmato per essere buono o inoffensivo. Nel film, così come nel libro, il male compiuto dallo Stato, facendo il lavaggio del cervello ad Alex, è molto spettacolare. Alex ama Beethoven, e ha utilizzato la Nona sinfonia come stimolo per i suoi sogni di violenza. Questa è stata la sua scelta, ma nulla gli avrebbe impedito di usare quella musica come semplice consolazione, o assumerla ad immagine dell'ordine divino. Il fatto che nel momento in cui il condizionamento ha inizio lui non abbia ancora compiuto la scelta migliore, non significa che non lo farà mai.  Ma a causa della terapia del disgusto, che associa Beethoven alla violenza, questa scelta gli è preclusa per sempre. E' una punizione che agisce a livello involontario, ed equivale a derubare un uomo - atto stupido e irrazionale - del suo diritto a gioire della visione divina. Ciò che sconvolge sia me che Kubrick, è che alcuni lettori e spettatori di Arancia meccanica sostengano di avervi trovato un compiacimento gratuito nel ritrarre la violenza, il che trasforma l'opera da "messaggio sociale" a mera pornografia.  Certo, senza la violenza sarebbe stato più gradevole, ma la vicenda dell'emendamento di Alex avrebbe perso forza se non si fosse potuto vedere da che cosa lo si stava correggendo. Per me, ritrarre la violenza doveva essere un atto catartico e caritatevole insieme, perché mia moglie è stata vittima di una violenza crudele e inconsulta a Londra nel 1942, all'epoca dei bombardamenti: è stata violentata e picchiata da tre disertori americani. Forse i lettori del mio libro ricorderanno che l'autore dell'opera dal titolo Arancia meccanica è uno scrittore la cui moglie è stata violentata. Alcuni spettatori del film sono stati turbati dal fatto che Alex, malgrado la sua crudeltà, è comunque degno di affetto. Ma se noi ci disponiamo ad amare il genere umano, dovremo amare Alex come membro pur sempre rappresentativo. Se Arancia meccanica, così come 1984, rientra nel novero dei salutari moniti letterari - o cinematografici - contro l'indifferenza, la sensibilità morbosa e l'eccessiva fiducia nello Stato, allora quest'opera avrà qualche valore”.
Anthony Burgess Los Angeles Times  21 Febbraio 1972

Le sequenze del film
Parte Prima

 
1) Una sera Alex e i suoi tre compagni (i Drughi) passano il tempo al Korova Milk Bar bevendo latte e pensando a cosa fare per soddisfare il loro istintivo bisogno di ultraviolenza.

2) Sotto un ponte i quattro prima sbeffeggiano, poi aggrediscono e picchiano un barbone.

3) Recatisi in un teatro abbandonato si imbattono in una banda rivale (i Billy Boy) che sta violentando una ragazza: fra i due gruppi si scatena uno scontro, interrotto dalle sirene della polizia, ma da cui escono vincitori i Drughi.

4) I quattro se ne vanno a tutta velocità in macchina nella notte.

5) All’interno di una casa di campagna al cui ingresso spicca la scritta Home, Mr. Alexander sta scrivendo a macchina, mentre sua moglie legge un libro, quando suona il campanello e la voce di Alex racconta che c’è stato un incidente, il primo dice alla donna di lasciarli entrare. I quattro immobilizzano l’uomo e violentano sua moglie, mentre Alex canta Singin’in the Rain.
 
6) I quattro fanno ritorno al Korova Milk Bar, dove Alex ha modo di confessarci il suo grande amore per Beethoven; a un altro tavolo, infatti, una donna canta l’inizio dell’Inno alla gioia, Dim le risponde con una pernacchia e Alex lo colpisce violentemente con il bastone.

7) Fatto ritorno a casa, in un caseggiato della perfieria, Alex si chiude in camera e si risolleva il morale ascoltando la “Nona” di Beethoven. Al mattino seguente dedice di non andare a scuola. I suoi genitore escono di casa, molto vagamente insospettiti da ciò che Alex racconta loro del proprio lavoro, soprattutto decisi a non interessarsene. Quando si alza Alex trova ad attenderlo l’assistente socila Deltoid, che lo sospetta per gli incidenti della notte precedente.

8) In un negozio di musica Alex abborda due ragazze e le porta a casa.

9) All’uscita di casa Alex trova ad aspettarlo i suoi compagni. Dim e Georgie mettono in discussione il suo ruolo di capo. Alex finge di accettare almeno in parte le loro proteste, ma poi, passeggiando lungo il Tamigi, decide di ristabilire l’ordine e li picchia. I quattro, in seguito, si ritrovano in un pub, The Duke of New York, e, ristabilito il ruolo egemone di Alex, concertano una nuova aggressione.

10) In una casa-palestra vive la signora Weathers, sola con i suoi gatti. Alex cerca di entrare con la scusa dell’incidente, ma lei non abbocca e chiama la polizia. Alex entra da una finestra: impugnando una grande e pesante scultura bianca a forma di fallo ingaggia un corpo a corpo con la donna, che si difende con un piccolo busto di Beethoven. Dopo averla ripetutamente colpita, fa per allontanarsi, ma all’uscita viene tramortito dai suoi compagni, mentre si sentono le sirene della polizia in arrivo.

Parte seconda

11) All’ufficio di polizia Alex viene interrogato e picchiato. Da Deltoid apprende che la “signora dei gatti” è morta.

12) Alex viene condotto in carcere, dove diventa il numero 655321.

13) Sono passati due dei quattordici anni che Alex deve scontare per omicidio: egli ascolta insieme agli altri detenuti la predica del cappellano sulle pene dell’inferno che colpiranno chi ha scelto il male invece del bene.

14) Nella biblioteca del carcere Alex, leggendo la Bibbia, immagina di essere un soldato romano che dapprima fustiga Cristo durante la Via Crucis e poi si riposa fra le braccia carezzevoli di alcune odalische. Approfittando del benvolere che gli dimostra il cappellano, che sa coltivarsi fingendo ipocritamente di essere sulla via della redenzione, ottiene qualche informazione su una certa “cura Ludovico” che dovrebbe permettere a un detenuto di ottenere rapidamente la libertà.

15) Durante l’ora d’aria dei detenuti, il Ministro degli Interni visita la prigione. Alex si propone e viene scelto per la “cura Ludovico”. A malincuore il direttore del carcere è costretto a rilasciarlo.

Parte terza


16) Accompagnato da un irritato capoguardia – lo stesso che lo ha accolto al suo arrivo in carcere – Alex entra nella clinica del dottor. Brodsky.

17) La “cura Ludovico”: Alex viene trattato con psicofarmaci e sottoposto a visioni coatte di film di violenza e documentari sulle parate naziste. La sua reazione è una nausea violenta e disperata – che scatta a sentire la “Nona” di Beethoven, inserita come sfondo sonoro, proprio a quelle parate.

18) Il Ministro degli Interni lo esibisce in pubblico, prima di fronte ad un attore che lo insulta, lo schiaffeggia e lo obbliga a leccargli le scarpe, poi di fronte ad una bella ragazza seminuda. Alex vorrebbe toccarla e prenderla, ma la nausea ha il sopravvento. La “cura” è riuscita.

Parte quarta

19) Al suo ritorno a casa Alex trova la sua stanza abitata da un altro giovane, di cui i suoi gentori sono molto fieri e che si dichiara legato a loro più di quanto non sia mai stato il loro vero figlio. Alex se ne va, deluso e amareggiato.

20) Solo, lungo il Tamigi, Alex arriva a meditare il suicidio. Incontra un barbone – lo stesso della sequenza due – che gli chiede l’elemosina e infine lo riconosce; lo trascina con sé in mezzo ad altri barboni e tutti insieme prendono a picchiarlo, fino a quando arrivano due poliziotti, che in realtà non sono altri che Dim o Georgie. Questi caricano Alex su un furgone, lo portano in aperta campagna e qui lo picchiano tenendogli la testa immersa in un abbeveratoio.

21) Un violento temporale coglie Alex mentre vagabonda per le strade, disperato e sanguinante. In cerca di un rifugio arriva alla casa di Mr. Alexander, che, vedovo, vive insieme ad una robusta guardia del corpo. Alex non viene riconosciuto, ma al contrario accolto come una vittima del potere e del governo – doppiamente vittima, sia della “cura Ludovico” di cui parlano i giornali, sia della brutale aggressione della polizia. Mentre fa il bagno, tuttavia, si mette a canticchiare Singin’in the Rain e Mr. Alexander lo riconosce.

22) Alex sta rifocillandosi dietro le insistenze un po’ nevrotiche di Mr. Alexander. Sopraggiungono due membri dell’opposizione, cui Alex racconta gli effetti lascati su di lui dalla “cura Ludovico”, tra cui l’odio per Beethoven. Poi, stordito da una droga aggiunta al vino, stramazza sul piatto.

23) Alex si risveglia, chiuso in una stanza, al suono della “Nona”. Nausea e disperazione lo spingono a tentare di uccidersi gettandosi dalla finestra.

Parte quinta

24) Alex si risveglia in ospedale con il collo, le braccia e le gambe ingessati. I giornali pubblicano violente accuse al governo. Alex riceve una visita dei genitori pentiti.

25) Una psichiatra visita Alex: le sue reazioni dimostrano che gli effetti della “cura Ludovico” sono ormai svaniti.

26) Anche il Ministro degli Interni viene a fargli visita, lo aiuta a mangiare e stipula con lui un patto di collaborazione, che garantirà ad Alex uno stipendio e al governo la possibilità di salvare la facccio. “Ero guarito, eccome!”, sono le ultime parole di Alex, mentre da un imponente stereo regalatogli dal Ministro fuoriescono le note trionfali dell’Inno alla gioia.

27) L’ultima inquadratura (al rallentatore) mostra Alex e una ragazza che si rotolano a terra, al centro di un immaginario palcoscenico: alle loro spalle, a formare due quinte, sfumano verso il fondo due serie di spettatori in abiti vittoriani che applaudono con garbo molto inglese la loro esibizione. L’apoteosi dell’Inno alla gioia lascia il posto a Singin’in the Rain, che accompagna i titoli di coda.

L’incipit narrativo
Dopo i titoli di testa la vera prima immagine del film è il primo piano di Alex: immobile e con lo sguardo in macchina che guarda verso il pubblico. Ha l’occhio destro truccato pesantemente, la bombetta scura: il suo volto assomiglia a quello di un clown, quasi un ricordo di Charlot.
Subito dopo ha inizio una lunga carrellata indietro, che scopre prima il gruppo dei Drughi, abbigliati come Alex e seduti intorno a lui, poi, ai lati, delle sculture-manichini raffiguranti donne nude e adibite a tavolini. Via via che la carrellata indietro prosegue, scopriamo che quei tavolini compongono una doppia serie, perfettamente allineata, al centro della quale, sullo sfondo, rimane il gruppo dei Drughi.
La voce over di Alex comincia a parlare e continua per tutta la durata della carrellata, mentre risuona un arraggiamento elettronico di una marcia funebre di Henry Purcell (Music for the Funeral of Queen Mary).
L’incipit di un racconto costituisce non tanto – o non necessariamente – l’avvio di un’azione, quanto l’ingresso in un mondo di cui lo spettatore non sa ancora nulla; è la soglia varcando la quale questi dà inizio alla propria conoscenza di quel mondo, di volta in volta con un impatto brutale, un invito alla contemplazione, una lancinante emozione … e via dicendo; può essere un’apertura descrittiva, un attacco in medias res, un movimento che conduce  progressivamente al nucleo del racconto, una semplice cornice dell’azione stessa, oltre che ovviamente una soluzione mista, in cui diverse di queste caratteristiche si sovrappongono e sfumano le une nelle altre.
Arancia meccanica si apre sul primo piano di Alex, sul suo sguardo impertinente, rivolto espressamente a noi, e prosegue con la sua autopresentazione in prima persona e voce over (“Eccomi là: cioè, Alex e i miei Drughi”); egli è posto immediatamente al centro del racconto; arriva addirittura ad accenare ad uno degli elementi più importanti dell’intreccio: l’ultraviolenza. Come spettatori sappiamo subito chi è il protagonista, anzi abbiamo un protagonista che si fa narratore, e sarà solo grazie alle sue informazioni – a parte qualche raro momento – che potremo ricostruire nella nostra mente questa storia.
Anche se questo inizio presenta in modo meno evidente un altro elemento fondamentale del film: il rapporto natura/cultura. Non a caso, nel primo piano di apertura del film, il volto di Alex ha un occhio dipinto e uno al naturale, come a sottolineare quell’insieme irrisolto e a suo modo schizofrenico che è l’uomo. Ma su questo argomento torneremo in seguito.
Tornando all’inizio del film dobbiamo ricordare che la tecnica di autopresentazione è una costante nel romanzo classico (pensiamo per esempio all’inizo di Moby Dick), ma anche il cinema la utilizza spesso, magari con l’aiuto di un destinatario-mediatore (per esempio il magnetofono in La fiamma del peccato di Billy Wilder o il pianista a cui viene indirizzata una lettera in Lettera di una sconosciuta di Max Ophuls). Però in Arancia meccanica Kubrick non utilizza nessun destinatario intermedio, non finge che Alex racconti a qualcun altro la storia: il protagonista narratore con il suo sguardo in macchina si rivolge direttamente agli spettatori, di cui diventa immediatamente complice e confidente.
In Arancia meccanica la voce di Alex accompagna, sia pure saltuariamente, tutta la storia dall’inizio alla fine, e propone il protagonista nella sua doppia funzione: guida del gruppo dei Drughi e guida del racconto.
Anche se Alex non racconta gli avvenimenti, ma si limita a commentarli. La sua voce è sempre al presente, non lascia mai trasparire un accenno al passato, tutto si svolge davanti ai suoi (e ai nostri) occhi, in una sorta di presente che si rinnova in continuazione.
Dopo l’inizio in primo piano, la macchina da presa arretra (in carrello) dal protagonista e si rompe quel patto di complicità suggellato con gli spettatori attraverso lo sguardo in macchina: alla prima persona si affianca il gruppo. Alex viene come riassorbito nel gruppo dei Drughi e anche lui come gli altri avrà un ruolo subalterno: un manichino come quelli che fungono da tavolo. Per cui Alex è al tempo stesso protagonista e frammento del disegno che lo contiene. Nonostante il suo sfrontato individualismo è destinato a diventare l’ingranaggio di una macchina capace di divorarlo.
Questa contraddizione è poi raddoppiata dall’accostamento tra le parole ciniche e vitali del protagonista, con il commento musicale marziale e funereo.
Lo stesso movimento di macchina caratterizza anche le sequenze successive: il passaggio dalla bottiglia in mano al barbone al totale del sottopassaggio (seq. 2); il passaggio dall’affresco sul frontone del teatro abbandonato al totale del palcoscenico, dove si sta consumando la scena di violenza della banda di Billy Boy (seq. 3). Con questo passaggio dal dettaglio al generale Kubrick sembra suggerire agli spettatori che la storia raccontata non riguarda solo Alex: bensì è la storia di un gruppo, di una generazione o addirittura una vera e propria storia dell’uomo.
La scena si chiude con un’inquadratura che sembra un vero e proprio tableaux vivants, una scelta, definita da alcuni, teatrale e destinata a ritornare più volte nel film: il teatro (all’inizio della seq. 3); la corsa in macchina, così smaccatamente finta, (seq. 4); Mr. Alexander alla scrivania (seq. 5); la signora dei gatti che fa ginnastica sul palcoscenico della sua casa (seq. 10); l’ora d’aria (seq. 15); i teatri della “cura Ludovico” (seq. 17 e 18); la scena finale.
E’ un po’ come se Kubrick volesse tenersi (e tenerci) fuori dal racconto, e questo in contrasto con l’interiorizzazione della voce over mette in scena un racconto che si denuncia continuamente come recitazione, come falso, una costruzione del pensiero, una messinscena. Brechtianamente il regista sottolinea continuamente che stiamo assistendo a qualcosa che accade sullo schermo, che viene fatto accadere appositamente sullo schermo per noi, magari con la complicità fittizia della voce di Alex.

Alex il grande
Alex è un adolescente che gioca ad impadronirsi simbolicamente del mondo. I suoi gesti sono giochi di finzione: dal gioco della guerra (seq. 3) al balletto in casa Alexander, dalla lettura della Bibbia come fonte di sogni al gioco di potere che instaura col Ministro degli Interni. Per lui il mondo è un palcoscenico, come mostra l’inquadratura finale. Persino sesso e violenza non sono per Alex che un gioco. Infatti la sua pulsione erotica è più vicina ad un gioco selvaggio e infantile che all’erotismo: il desiderio che muove il protagonista obbedisce ad una libido fine a se stessa, del tutto autosufficiente, cieca, indifferente e indefferenziata. La violenza sulla signora Alexander è trasformata in un balletto; l’uccisione della signora dei gatti è sostituita da un effetto cartoon che rende l’oggetto grottescamente distanziato o assente; la fallo-scultura usata è solo un giocattolo (Alex ne ammira ripetutamente il funzionamento); e la maschera è anch’essa parte del gioco di imitazione (ci si maschera per essere altri da sé, prima ancora che per nascondersi).
Come in ogni infanzia che si rispetti, alla violenza e alla sessualità si accompagna la solitudine. Alex non ha amici, ma solo una banda di cui è il capo; vive in una stanza blindata (il primo dialogo con la madre si svolge attraverso una porta chiusa) e i suoi rapporti con i genitori non appaiono in grado di rompere questa solitudine, come neppure la comprensione ipocrita del cappellano in carcere o l’incontro con le due ragazze, tutto risolto nel ritmo accellerato e grottesco: ancora una volta, il sesso come gioco.
Il suo stato infantile viene dichiarato esplicitamente nel finale, quando deve essere imboccato dal Ministro degli Interni e quando questi lo compra – lo integra – regalandogli un giocattolo più grande e più bello dei precedenti, ma soprattutto quando può sognare se stesso al centro di un palcoscenico senza confini, tutto ciò che insomma per lui è il mondo. Arancia meccanica per cui racconta una trasformazione, ma non una crescita.
La dimensione insistentemente infantile del ritratto introduce quella che è una delle chiavi di lettura del film: la caricatura. Arancia meccanica rifiuta apertamente ogni dimensione realistica, per proporsi al contrario come caricatura stilizzata e iperbolica di un uomo che è ancora incongruamente sospeso fra arretratezza naturale e falso progresso culturale, inchiodato a un’adolescenza ontologica.
In questa direzione si muove anche l’accattivante intrepretazione di Malcom McDowell, bravo a mescolare ambiguamente il sinistro e diabolico del suo sguardo con l’infantilità, furba e complice, dei suoi occhi azzurri. La sua recitazione costruisce un personaggio-giocattolo, un bambino che sostituisce all’apprendimento e alla conoscenza l’aggressività, la fuga o il distacco, che vive le proprie avventure come momenti di un gioco, che non sembra insomma mai prendersi sul serio.

Simmetrie
La sceneggiatura di Arancia meccanica è un modello di equilibrio: tre atti di quarantacinque minuti ciascuno, l’elemento centrale del trittico (la prigione, la cura) separano due itinerari che si rispondono l’un l’altro anche se in ordine differente. In realtà, pur restando rigorosamente simmetrica, la struttura narrativa del film è leggermente più complessa ed è per questo che nella suddivisione delle sequenze è stata proposta in cinque parti. Vediamo perché.

Prima parte (seq. 1/10)

La vita normale di Alex, una serie di tappe apparentemente disarticolate, legate solo dal crescendo ritmico e di effetti della violenza, che culmina nel corpo a corpo con la signora dei gatti. Il progetto narrativo dominante (l’ultraviolenza) si realizza pressoché indisturbato e ripetutamente, da un lato incontrando ostacoli destinati a essere superati in un batter d’occhio (solo la banda di Billy Boy e la signora dei gatti oppongono qualche resistenza non certo il barbone o i signori Alexander), dall’altro usufruendo di complici, i Drughi, che tentano sì di ribellarsi, ma anche loro sono destinati alla sconfitta, almeno fino alla sequenza 10.

Seconda parte (seq. 11/15)
L’ingresso di Alex in carcere, la sua vita fra lettura della Bibbia, sogni e rapporti quanto meno equivoci col cappellano. L’ultraviolenza non perde la sua carica dominante, ma semplicemente la sublima nell’attesa, nel sogno e nei tentativi di liberazione. L’ellissi narrativa che apre questa seconda parte – uno stacco, due anni – sminuisce realmente il senso del tempo rendendo così meno pressante la prigionia; e poi, se è vero che tra queste si cela un suo più o meno volontario complice, il Ministro degli Interni, che ne approverà il trasferimento.

Terza parte (seq. 16/18)
E’ quella centrale della “cura Ludovico”, che fa da vero e proprio spartiacque narrativo al film, segnando una netta inversione di percorso. Non solo, infatti, Alex continua a essere prigioniero – e cioè a trovare ostacoli troppo forti al suo infantile desiderio di libertà – ma è il suo stesso carattere a essere rovesciato: il piacere del carnefice viene specularmente trasformato in dolore della vittima. La sua maturazione è insomma dolorosa.

Quarta parte (seq. 19/23)
Il ritorno alla libertà e la conseguente progressiva caduta di Alex, fino al tentato suicidio. E’ qui che la simmetria è più trasparente, ripercorrendo passo per passo l’itinerario della prima parte, attraverso ripetizioni e ritorsioni. Se Alex inizia la sua notte brava picchiando un barbone (seq. 2), sarà proprio quest’ultimo ad aggredirlo per primo alla sua uscita dalla “cura Ludovico” (seq. 20); la punizione che gli infligge ai suoi compagni picchiandoli e gettandoli nel fiume (seq. 9) verrà ritorta contro di lui, con analogo pestaggio e soffocamento nell’acqua (seq.20); se violentando la signora Alexander canta Singin’ the Rain (seq. 5), sarà proprio questa canzone, canticchiata in bagno, a determinare il riconoscimento da parte dell’uomo (seq. 21); la casa di Alex si trasforma da rifugio (seq. 7) a luogo di esclusione (seq. 19); e infine L’inno alla gioia si trasforma da elemento di gioia liberatoria (seq. 7) a incubo che porterà Alex a tentare il suicidio (seq. 23) – ed è tra l’altro la prima volta che vediamo il cielo. Alex subisce, con simmetria speculare, le angherie di cui era stato autore in precedenza.

Quinta parte (seq. 24/27)

La seconda liberazione e ascesa di Alex, il suo ingresso nel mondo degli adulti, fino all’apoteosi finale. La funzione complice del Ministro degli Interni, già introdotta nella terza parte, trova qui la sua risoluzione più completa: l’incertezza altalenante della quarta parte si risolve dialetticamente in un trionfo di Alex e del suo progetto narrativo. La natura politica – culturale oltre che naturale, quindi – della violenza viene finalmente a galla.

Ogni azione rivela due facce, ripetendo sul piano delle singole sequenze il principio di simmetria generale che domina l’intero racconto. In questo modo il racconto ci dice che, di fatto, nulla cambia.

La “cura Ludovico”
Al centro del film – vera e propria cerneria – troviamo la “cura Ludovico”, che segna anche il passaggio del protagonista dalla fase adolescenziale sopra accennata al quella di una presunta maturità: l’uso dei due termini non deve comunque trarre in inganno, il passaggio essendo nei fatti quello da una sfrenata libertà al condizionamento educativo di cui il giovane Alex si dovrà rendere dolorosamente conto e dal quale uscirà sostanzialmente immutato.
Alla pulsione naturale, in cui libido e violenza si mescolano fino a rendersi indistinguibili, si oppone nella seconda e terza parte del film una pulsione opposta, culturale, che potremmo definire della ragione sociale o dell’apprendimento coatto (è insomma il limite di fondo di una cultura che rispetta la natura umana solo per sfruttarla). La prigione risponde ad una logica coercitiva. Il capoguardia è un personaggio esemplare in questo senso non ha nemmeno bisogno di parlare, di spiegarsi, per farci capire che non crede a nessuna redenzione, né tanto meno al libero arbitrio di cui parla il cappellano: la prigione che egli guida è la forma civilizzata e istituzionale della violenza.
Non a caso alla prigione arriviamo in progress, passando attraverso l’ufficio della polizia: i poliziotti, l’assistente sociale, il capoguardia sono gli aspetti appena superficialmente differenziati della stessa logica coercitiva. Nessuno – nemmeno il direttore del carcere, fermo ad un sintomatico “occhio per occhio” – ha in mente come obiettivo la libertà, ma solo il miglioramento dello stato sociale, la sua pacificazione, e quindi la separazione da questo dei corpi estranei, della natura inconciliabile al grande disegno d’ordine. Il momento culminante di questo scontro fra Natura e Cultura (fra adolescenza e maturità, fra un pensiero irresponsabilmente selvaggio e la sua repressione-liberazione) è la “cura Ludovico”, cioè la coercizione spinta fisicamente e chimicamente al di là del comportamento, nelle radici biologiche dell’istinto. Il dottor Brodsky e i suoi aiutanti operano sull’inconscio, lo condizionano, lo rendono simile a un meccanismo di cui ogni ingranaggio sia controllabile a priori. E’ questa visione settoriale, freddamente e ritualmente scientifica dell’uomo, che li conduce all’errore della commistione Beethoven-nazismo.
La “cura Ludovico” si svolge in due fasi: una serie di iniezioni e una serie di sguardi. In entrambi i casi si tratta di una penetrazione, di una invasione del corpo nella sua doppia veste biochimica e psicofisica. La sequenza 17 ci mostra entrambe le violazioni con grande abbondanza di dettagli – ci mostra ciò che le sequenze di stupro (seq. 5 e 10) avevano nascosto: la violenza sulla signora Alexander è ellitticamente celata, mentre è di contro ostentata, nella ripetizione delle inquadrature, quella sul marito costretto a guardare; allo stesso modo non vediamo l’uccisione della signora dei gatti, ma solo ciò che lei e Alex vedono nel momento dell’uccisione. La “cura Ludovico” invece non conosce reticenze: vediamo gli occhi artificiosamente spalancati di Alex e vediamo ciò che lui vede. La penetrazione – già provata da Mr. Alexander sia fisicamente (la casa), sia virtualmente (lo spettacolo della violazione della moglie) – raggiunge il cervello di Alex così come l’intramuscolare raggiunge il suo sistema nervoso centrale. Arancia meccanica mostra solo di riflesso ciò che accade al doppio circuito occhio-cervello e orecchio-cervello. In questo letterale “occhio per occhio”, la violenza ha l’alibi della scientificità e della ragione.
L’importanza dell’occhio è anticipata nel braccialetto che Alex ci mostra, sia pure di sfuggita, nelle sequenze 7/9/10 – quando si spoglia in camera sua, quando aggredisce i suoi compagni e quando lotta con la signora dei gatti (un occhio ridotto a puro feticcio pop); non a caso, dopo essere stato colpito, Alex grida: “Non ci vedo più! Vigliacchi! Sono cieco!”. Dallo sguardo al cinema – arte dello sguardo – il passo è breve: “Arancia meccanica ci parla dell’occhio, dell’immagine e del cinema”; “il cuore stesso del dibattito concerne l’utilizzazione che si può fare del cinema per manipolare un dato pubblico”. Al cinema rimanda scopertamente la citazione di Singin’ in the Rain – altro inno alla gioia che viene trasformato in “balletto di morte”; ma soprattutto il processo di comunicazione su cui si fonda la “cura”. Non solo la sala cinematografica in cui Alex viene sottoposto alla “cura” è il prolungamento e l’ampliamento della prigione, l’imprigionamento dello sguardo e del cervello – ma soprattutto è attraverso l’occhio che le immagini raggiungono, feriscono e modificano il cervello.
Immagini sconvolgenti, che però appartengono già all’immaginario collettivo di Alex: il film dello stupro mostra giovani vestiti di bianco, proprio come i Drughi; i sogni di Alex sembrano usciti da un catalogo della peggiore “serie B hollywoodiana”: una sposa impiccata, inquadrata dal basso; Alex truccato da Dracula, col sangue che cola dai denti; immagini di un peplum catastrofico. Alex è già, sin dall’inizio, il prodotto di un processo culturale che ha rovesciato e adattato il cinema e la musica alla propria struttura basata sulla violenza, facendone i portavoce paradossali: addirittura alle radici di questa formazione mentale troviamo sia la Bibbia che Le mille e una notte, “libri dei libri” essi stessi produttori alla fin fine di un immaginario colletivamente deviato. Dove comincia veramente la natura violenta di Alex?
La cerniera della “cura Ludovico” segna quella che, con molti distinguo, abbiamo chiamato la maturazione di Alex: alla fine (seq. 25) egli è completamente guarito dagli effetti della “cura” e pronto a riprendere la sua vita fatta di violenza e di sesso, ma questa volta sotto le ali protettive dell’apparato istituzionale. La differenza sta tutta qui. La presunta maturazione è solo un’integrazione funzionale.
Lo scontro fra Natura e Cultura viene superato dialetticamente (mai come in questo caso si può parlare di dialettica negativa): il superamento è l’assorbimento della violenza naturale all’interno del sistema politico. L’immagine conclusiva lo mostra festante con una ragazza nuda, in un turbinio di neve finta, cinematografica, al cospetto di una doppia quinta di spettatori, al suono dell’amata “Nona” di Beethoven. La perdita di aggressività si accompagna idealmente alla spettacolarizzazione totale della libido. Tutto è diventato falso, pura apparenza, sublimazione iconica. Si può anche essere convinti che questo sia un happy end, solo perché Alex – il mondo – sarà indubbiamente più tranquillo, d’ora in avanti. Ma in realtà il film lascia solo presagire un futuro di definitiva compromissione e/o di sogno. Tutto torna ad essere come era prima della cura.

La pittura
I manichini che arredano il Korova Milk Bar hanno delle forti rassomiglianze con Chair e Table due sculture realizzate nel 1969 da Allen Jones. Questa evidente citazione apre immediatamente la strada ad una interpretazione del film fortemente caratterizzata dalla Pop Art.
In seguito anche nei quadri che arredano la casa della signora dei gatti ritroviamo le spalmature meccaniche di colore pieno di Wesselmann; la doppia bocca spalancata che sostituisce il volto della donna nel momento in cui viene uccisa sembra disegnata da Lichtenstein; il kistsch della casa e degli abiti dei genitori di Alex rimandano a Ramos.
La constatazione da cui parte la Pop Art è che tutto il mondo – uomo compreso – è diventato forma-oggetto, design, prodotto industriale e seriale di una rappresentazione che non ha più come oggetto l’uomo, ma la sua rappresentazione di massa. Da qui le celebrazioni della Coca Cola, delle Campbell Soup, dei volti delle star come Marilyn Monroe e Liz Taylor operate da Warhol; di qui il recupero della grafica dei cartoon operato da Lichtenstein o delle levigate forme pubblicitarie di Wesselmann o Ramos.
Grazie anche alla fotografia di John Alcott che oscilla tra realismo ed espressionismo, tutto appare volutamente artificioso e caricaturale, in sintonia con alcune invenzioni narrative come l’effetto cartoon che chiude la sequenza dell’uccisione della signora dei gatti. Nel momento in cui esplode la natura di Alex, vediamo non il suo effetto concreto e carnale, bensì un suo sostituto grafico che trova stilisticamente riscontro nel mondo che lo circonda.
Ironico è anche l’uso del colore, e in particolare del bianco: il colore del latte, il più materno degli alimenti e della droga “latte più” e del Korova Milk Bar; ma è anche il colore degli abiti dei Drughi e della grande scultura fallica con cui viene uccisa la signora dei gatti. Il bianco diventa così il colore della morte e della luce. Una luce forte, chiara e al tempo stesso falsa: fasci di luce radente disegnano i Drughi nel sottoppassaggio come lunghe espressionistiche ombre minacciose o stagliano sul fondale di un teatro quelle gigantesche e violente della banda di Billy Boy; un “occhio di bue” trasforma un luogo di sperimentazione scientifica in luogo di spettacolo (seq. 18). Questa luce raggela le immagini e toglie ogni alone di melodrammaticità alle scene più cupe.
 
La musica
Anche della musica Kubrick fa un uso straniante e sarcastico. Pensiamo per esempio al valzer di Strauss che in 2001 Odissea nello spazio segna l’entrata in campo delle astronavi e mescola ironicamente il passato e il futuro; in altri film la musica ricrea l’ambiente sonoro in cui si svolgono le storie raccontate come in Barry Lindon (il 700). Più in generale possiamo notare come nei film di Kubrick l’inserimento di brani musicali, preesistenti o no, implichi una sorta di riscrittura di queste musiche, che sembrano “cambiare” a contatto con le immagini.
Nelle musiche presenti in Arancia meccanica possiamo notare una prima collocazione che defineremo intradiegetica: le fonti sonore provengono direttamente dal racconto. Singin’ in the Rain cantata da Alex nelle sequenze 5 e 21; la Sinfonia n. 9 in re minore di Ludwig van Beethoven detta “Corale” e in particolare il quarto movimento, L’inno alla gioia nelle sequenze 6, 7, 17, 23; l’ouverture de La gazza ladra di Gioacchino Rossini nella sequenza 9.
Per esempio la musica di Rossini nella sequenza 9 proviene da un imprecisato caseggiato dei dintorni e suggerisce ad Alex il ricorso alla violenza: “C’era una finestra aperta, con uno stereo e seppi subito cosa fare”.
Questa dichiarazione attribuisce immediatamente al brano un esplicito invito alla violenza. Infatti compare più volte all’interno del film in posizione eterodiegetica (la sua fonte non appartiene alla scena del racconto), associata ad azioni di violenza: nello scontro con la banda di Billy Boy (seq. 3); l’arrivo a casa Alexander (seq. 4), il corpo a corpo con la signora dei gatti (seq. 10). Per cui possiamo dire che nel film La gazza ladra diventa il leit-motiv della violenza.
La gazza ladra è un’opera curiosa, che sembra dover condurre alla tragedia (l’ingiusta condanna a morte della protagonista e di suo padre) per recuperare solo alla fine la struttura narrativa dell’opera buffa (il lieto fine). Un’opera dalla struttura incongrua che però sembra scelta da Kubrick per la vivacità musicale, per la vitalità, per il ritmo quasi danzante che conferiscono alle sequenze di violenza un aspetto giocoso, liberatorio e quasi positivo.
Questa incongruità degli accostamenti è la chiave dominante di tutta la colonna sonora.
La prima volta che sentiamo L’inno alla gioia è nell’accenno che ne fa un cliente al Korova Milk Bar (seq. 6) e serve ad informarci della passione di Alex; la seconda è nella sequenza 7 quando scopriamo dalle parole di commento quasi shakespeariane di Alex la sua grande passione musciale per Beethoven; ritorna in versione deformata dal sintetizzatore in apertura della sequenza 8 e la ritroviamo poi in associazione alle immagini delle parate naziste della “cura Ludovico” (seq. 17); diventa l’arma vendicatrice di Mr. Alexander (seq. 23); accompagna infine l’immagine conclusiva (seq. 27) Tranne che in sequenza 8, la collocazione del brano è sempre intradiegetica: assolve quindi ad una funzione di commento e contribuisce alla definizone del personaggio di Alex.
Nella gioia di Alex, tutta violenza e sessualità, non troviamo nulla della gioia di Beethoven, ma semmai il suo uso pop, distorto e rovesciato, una irridente contraddizione che rivela contemporaneamente l’amore per l’arte, ma anche la sua demistificazione; non ci sono dubbi che Alex ami Beethoven, molti ci sono invece sul fatto che la musica possa in  sé migliorare la natura umana.
Arancia meccanica è anche un film sul cinema. Sul piano della colonna sonora lo è esplicitamente grazie a Singin’ in the Rain, presente nella versione classica solo sui titoli di coda e per il resto ridotta alla versione canticchiata con noncuranza da Malcom McDowell. Molto si è parlato della scelta di questa canzone, che sembra abbastanza casuale: Kurbick avrebbe chiesto a McDowell di cantare qualcosa e lui avrebbe accennato proprio a Singin’ in the Rain, scelta immediatamente dal regista per il film.
Al di là dell’anedottica possiamo notare come l’effetto di questa scelta sia stato “devastante”: ancora una volta quello che nasce come un inno all’ottimismo e all’allegria viene trasformato dal nuovo contesto narrativo in una marca di violenza.
Per cui la dimensione dominante della colonna sonora è lo sbeffeggiamento, il sarcasmo, l’irrisione, l’uso parodico di brani altrimenti codificati.
Come nel caso dell’ouverture del Gugliemo Tell di Rossini (elaborata al sintetizzatore da Carlos) che accompagna la sequenza 8, giocata visivamente sugli effetti grotteschi dell’accellerato, cui sovrappone così una sorta di equivalente ritmico-auditivo.
Il gusto degli accostamenti irriverenti lo si trova subito all’inizio del film con il brano Music of the Funeral of Queen Mary di Henry Purcell. Il brano compare nell’incipit a incorniciare l’autopresentazione di Alex; la stessa funzione la presenta più avanti quando apre e chiude la sequenza 6. Esso è sempre presente in forma eterodiegetica, come un vero e proprio commento, specificatamente associato al Korova Milk Bar, luogo di cerimoniale e di morte, in contrasto con la vitalità artificiosa del “latte-più”. Anche in questo caso si può individuare un intento parodico: si mette a confronto il funerale della Regina e il nuovo ritrovo dei “drogati”.

Stanley Kubrick, cenni biografici
Stanley Kubrick nasce nel Bronx nel 1928, studente con scarso interesse per la scuola, si dedica dapprima alla fotografia, poi dal 1949 al cinema. Tra i suoi primi film ricordiamo Fear and Desire (Paura e desiderio, 1953), ma quello che lo segnala all’attenzione della critica e del pubblico è Killer’s Kiss (Il bacio dell’assassino, 1955), un noir dai forti impulsi espressionisti. Con il successivo The Killing (Rapina a mano armata, 1956), realizza un’opera in cui è subito chiara una componente essenziale dello stile kubrichiano: il voler sfruttare fino in fondo tutti i mezzi del linguaggio cinematografico, per una messa in scena che traduce costantemente in immagini la violenza del genere noir. Nel 1957 è il momento di Paths of Glory (Orizzonti di gloria), uno dei film più belli mai realizzati sulla prima guerra mondiale. La guerra è presente anche in altre opere della breve filmografia di Kubrick: Spartacus (1960); Dr. Strangelove or: How I Learned to Stop Worrying and Love the Bomb (Il dottor Stranamore,1964), amaro apologo politico su una possibile terza guerra mondiale; Barry Lindon (1975), dove la carriera militare è vista come uno degli strumenti dell’ascesa sociale del protagonista, e Full Metal Jacket (1987) sul conflitto in Vietnam. Nel 1962 dopo aver realizzato in Inghilterra Lolita, dall’omonimo libro di Vladimir Nabokov, decide di restare a vivere nel paese anglosassone. Di Kubrick ricordiamo anche uno dei più straordinari film di fantascienza: 2001: A Space Odissey (2001: Odissea nello spazio, 1968) e Shining (1980) escursione nel genere horror, da un libro di Stephen King. Stanley Kubrick muore il 7 marzo 1999, mentre sta montando il suo ultimo film Eyes Wide Shut, uscito postumo.

Anthony Burgess, cenni biografici
Considerato uno dei più importanti romanzieri anglosassoni, John Anthony Burgess Wilson nasce da una modesta famiglia cattolica inglese a Manchester il 25 febbraio 1916. Dopo aver trascorso un'infanzia sostanzialmente serena si laurea all'Università della sua città in Filologia e Letteratura. La sua vera, iniziale vocazione è la musica, arte che non pratica da dilettante ma da vero professionista, se si considera che Burgess è un compositore a tutti gli effetti, con tanto di prime esecuzioni mondiali delle sue opere. Lui stesso dirà di aver scoperto la scrittura solo a 35 anni, come una rivelazione di quelli che  ha chiamato "impulsi estetici".
Durante la Seconda Guerra Mondiale presta servizio militare come direttore musicale degli spettacoli per le truppe inglesi in Europa e nel 1954 ottiene il posto di funzionario addetto all'istruzione di Letteratura e Fonetica in Malesia e Borneo, presso il Central Advisory Council for Forces Education.
Qui scrive i suoi primi romanzi, sfortunatamente non ancora tradotti in Italia: Time for a tiger, The enemy in the blanket e Beds in the east, ripubblicati anche collettivamente - a partire dal 1964 - col titolo di The Malayan Trilogy in cui l'autore affronta il tema dei conflitti razziali e della crisi del colonialismo britannico nell'estremo Oriente.
Nel 1959 rientra in Inghilterra in seguito alla diagnosi - rivelatasi poi errata - di un tumore al cervello. Gli viene profetizzato un solo anno di vita ed egli lo occupa scrivendo freneticamente: cinque romanzi, due commedie, numerosi racconti, copioni, sinfonie, sonate, traduzioni di sonetti, canzoni e musiche per la radio ed il teatro.
Il tono dei romanzi di questo periodo è comico-satirico, di acuta critica della società contemporanea: Devil of a state (1961) è un farsa sul tema dell'interferenza tra amore e politica ambientata in un immaginario califfato africano, mentre The wanting seed (1962) è una satira fantascientifica che suggerisce l'omosessualità, la guerra ed il cannibalismo come rimedi all'esplosione demografica.
Del 1962 è anche la sua opera più famosa, Clockwork orange (Un'arancia ad orologeria).
Anthony Burgess raggiunge il culmine delle acrobazie linguistiche e della visione pessimistica della società con dei romanzi non di genere: la trilogia Enderby: Inside Mr. Enderby (1963), Enderby Outside (1968) e Enderby's End, or the Clockwork Testament (1974) - biografia psicologica e critica testuale insieme, di un immaginario poeta anarchico alter ego di Burgess stesso, e MF (1971) - commedia nera di incesti e omicidi nelle isole del Mar dei Caraibi.
Nel 1968 Burgess abbandona l'Inghilterra per trasferirsi prima a Malta poi in USA, in Italia e in Francia. In America ottiene il posto di commediografo per il Tyrone Guthrie Theatre di Minneapolis e quello di professore di Inglese per il New York's City College.
Di lui ricordiamo anche: ABBA ABBA (1977), biografia fantastica della famiglia Wilson rintracciata nelle sue origini italiane;  L'Homme de Nazareth (1977), biografia non convenzionale di Cristo; 1985 (1978), ironico aggiornamento di 1984, famoso romanzo di George Orwell; The end of the world news (1982); senza dimenticare la sua vasta produzione critica comprendente tra l'altro saggi su James Joyce e sul romanzo contemporaneo. Anthony Burgess è morto in Francia il 22 novembre 1993.

Bibliografia
Enrico Ghezzi, Kubrick, Firenze, La Nuova Italia, 1977
Giorgio Cremonini, L’arancia meccanica, Torino, Lindau, 1996
AAVV, Kubrick, La Biennale di Venezia, 1999
www.biografieonline.it

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