Un film di Jean-Jacques Annaud
Soggetto: dal romanzo omonimo di Umberto Eco
Sceneggiatura: Andrew Birkin, Gerard Brach, Howard Franklin, Alain Godard
Fotografia: Tonino Delli Colli
Scenografia: Dante Ferretti
Costumi: Gabriella Pascucci
Musica: James Horner
Montaggio: Jane Seitz
Intepreti: Sean Connery (Guglielmo da Baskerville), Christian Slater (Adso da Melk), F. Murray Abraham (Bernardo Gui), Feodor Chaliapin Jr. (Jorge Da Burgos), Michael Lonsdale (L'abate), Valentina Vargas (La Ragazza), Ron Perlman (Salvatore), Helmut Qualtinger (Remigio), Volker Prechtel (Malachia), William Hickey (Ubertino da Casale), Michael Habeck (Berengario), Elya Baskin (Severino).
Produzione: Cristaldi Film Roma
Origine: Francia/Italia/Germania
Anno Di Edizione: 1986
Durata: 132’
Sinossi
Nell'autunno del 1327 giunge in un maestoso monastero italiano il francescano Guglielmo da Baskerville con il novizio Adso per un incontro tra francescani e delegati papali. Morti misteriose si succedono e le indagini di Guglielmo vengono ostacolate. Il delegato papale procede con metodo inquisitorio: eresia e omicidio per lui si identificano, ma la soluzione sta da un'altra parte.
Cinema e storia
Filmare avvenimenti storici, recenti o lontani nel tempo, è uno dei temi più sfruttati dal cinema, fin dalle sue origini.
La possibilità di rendere visibile la "scena della storia" con un realismo che non ha eguali rispetto al teatro, al romanzo o alla pittura, rappresenta una delle carte vincenti del cinema dei primitivi. Grazie al potere di fascinazione delle immagini in movimento, il cinema regala alle rappresentazioni quell'alone di "verità" che lo rende tanto suggestivo e fascinoso.
Tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento, inoltre, il cinema attinge le sue storie saccheggiando il romanzo "storico", per cui le riprende da una materia familiare agli spettatori dell'epoca, visto che il romanticismo ha imposto il romanzo "storico" come il genere di maggior fortuna popolare.
Da questo primo atteggiamento che potremmo definire "parassitario", il cinema trova poi una sua personale dimensione narrativa e si afferma attraverso le proprie specifiche peculiarità espressive.
Parallelamente alla definitiva affermazione del cinema nasce anche il dibattito intorno al cinema come fonte storica.
Intorno ai primi anni del secolo il cinema e la fotografia vengono celebrati come strumenti oggettivi di riproduzione del reale. In questi anni prevale ancora l'utopia di origine positivistica della "storia scritta dal fulmine" (1), per cui il cinema e la fotografia vengono considerati come documenti oggettivi, capaci di sottrarsi ad ogni possibile manipolazione.
Questa idea declina rapidamente e per i "documenti scritti dalla luce" inizia un periodo di diffidenza che persisterà per molti anni, tanto da toccare anche i nostri giorni.
Ma perchè tanta diffidenza?
Un primo elemento di perplessità è da amputarsi alla natura non verbale del cinema. Se molte delle informazioni presenti in un film vengono ricavate dalle immagini, si presenta un problema di "traduzione" dal linguaggio iconico a quello verbale. Questa complessa operazione di traduzione spesso va a discapito del film, in quanto rischia di sopprimere gli aspetti più originali di un'opera cinematografica, quelli legati al valore dell'immagine.
La soluzione più semplice che si è trovata, è stata quella di ridurre la lettura del film al contenuto.
Un secondo motivo riguarda lo statuto di "verità" dell'immagine cinematografica e quindi anche del cinema. Al di là della sua abbagliante capacità di persuasione e di ricostruzione del passato è difficile rintracciare nel film quella verità tanto importante per gli storici. Come scrive Peppino Ortoleva: "Salvare e depurare la verità del cinema, liberandola dalle possibili manipolazioni, oppure al contrario rinunciarvi decisamente, cercando allora nel film non i frammenti di 'realtà fisica' più o meno rilevanti per lo storico, ma al contrario i sogni, le fantasticherie, la proiezione del corpo ma della psiche, più o meno cosciente, della società; esaltare il 'fatto', sopprimendo ogni forma, quasi ogni sospetto, di 'finzione', oppure al contrario ricondurre tutto il cinema a 'finzione', a invenzione fantastica, che a sua volta permetterebbe di giungere a una verità meno banale, quella appunto delle mentalità e delle convenzioni dominanti nella società, quelle delle mitologie collettive: è questo il dilemma a cui si è trovata di fronte in modo rigoroso il problema della 'verità' del film " (2).
Un terzo motivo di disagio riguarda l'intenzionalità soggettiva dell'autore o degli autori che hanno realizzato un film. Come diceva Orson Welles, "il poeta ha bisogno di una penna, il pittore di un pennello, chi fa cinema ha bisogno di un esercito", per cui risulta difficile definire uno e un solo autore, quando il film è il prodotto di una serie di professionalità.
Comunque a parte i distinguo e le perplessità degli storici, spetta a Pierre Sorlin aver teorizzato la possibilità concreta di utilizzare il cinema come fonte storica.
La prima e fondamentale caratteristica del suo lavoro, sta nell'attenzione rivolta al film non solo come oggetto del sapere, ma anche come strumento di trasmissione del sapere, diverso e complementare rispetto alla scrittura. Il cinema è per lui documento del suo tempo e oggetto storiografico da sottoporre ad un'analisi rigorosa e fondata sulla pluralità delle fonti. Senza dimenticare la necessaria compresenza in un film storico di documento e finzione: "anche se non basati su documenti (essi) devono ricostruire in modo puramente immaginario la maggior parte di quello che mostrano (...), fiction e storia reagiscono costantemente l'una sull'altra. Ed è impossibile studiare la seconda ignorando la prima" (3)
L'interferire di questi due piani in ogni opera di fantasia ispirata al passato leggittima quindi quel margine di arbitrio esercitato da molti registi per necessità squisitamente artistiche, ma più spesso per far coincidere un periodo storico con i modelli che di questo il pubblico è disposto ad accettare.
In questo senso spesso al cinema il passato è stato "osservato" e raccontato con la lente del presente; pensiamo, per esempio, all'equazione che si stabilisce tra fascismo ed epoca romana in Scipione l'Africano (Carmine Gallone, 1936).
In sintesi queste sono le tappe del dibattito teorico, ma la scuola come può utilizzare il cinema come fonte storica?
Scrive in proposito Peppino Ortoleva: "se pensiamo alla didattica della storia come un processo, una costruzione per fasi diverse, nella quale l'insegnante deve stimolare interrogativi, proporre ipotesi, interrogare fonti, giungere a primi risultati per poi verificarli insieme con gli allievi, allora l'uso apparentemente ingenuo del film come 'macchina del tempo' può ritrovare un suo spazio. La messa in scena del passato attraverso il passato stesso, la capacità evocativa del cinema, possono servire non tanto a dare risposte quanto a sollecitare curiosità, non tanto a mostrarci il passato 'come realmente era' quanto a indurci al confronto, all'approfondimento, a sempre nuove domande. Si può dire che uno stesso film dovrebbe, idealmente, comparire in un percorso didattico due volte, o forse tre: una prima volta, con tutta la sua carica di mistero e di inquietudine, per introdurre un periodo o un evento; una seconda volta, 'letto' con l'aiuto del videoregistratore a confronto con altri documenti coevi, per essere interpretato a tutti gli effetti come fonte, e come fonte complessa; e magari una terza volta, per essere di nuovo goduto a pieno come racconto, cogliendo tutte le sfumature che l'interpretazione storica ha consentito di riconoscere, ma trascorrendo l'atto interpretativo nel piacere dello spettacolo. Fra l'uso del film come meravigliosa macchina del tempo e la sua lettura come documento si può stabilire, in sostanza, non una contrapposizione, ma una complementarietà, una dialettica, che andrà guidata, amministrata, dall'insegnante". (4)
Rapporto libro/film
Confesso di aver letto il best-seller di Eco quando già si sapeva del film di Annaud. E soprattutto quando già s’era dato un volto all’incredibile personaggio di Guglielmo da Baskerville, quello di Sean Connery. Si sa come va in questi casi: uno legge pensando alle immagini, al cinema che potrà essere, anche se ciò che sta leggendo è quanto di meno cinematografico esista. Impossibile dar conto nell’economia delle due ore all’inestricabile dedalo di considerazioni filosofiche e di rimandi storici di cui è l’ordito del romanzesco. Impensabile tradurre in immagini e scandire dialogicamente un racconto che è anche e soprattutto un ragionamento. Tutto vero, e a leggere il libro pensando che ogni pagina dovrà diventare immagine c’è di che dubitare. Eppure, nell’improbabilità dell’adattamento cinematografico, di qualsiasi adattamento cinematografico conforme alle regole della fiction e dello spettacolo, c’è di che rallegrarsi per i risultati raggiunti da Annaud, il quale – evitando ogni possibile trasposizione “colta” – da un libro fortemente d’autore, personalizzato al massimo, ha scelto di trarre un film se possibile anonimo, dove la regia è alto mestiere: non interpretazione, non rienvenzione linguistica. In termini di transcodificazione ciò significa che se il libro funziona e vende perché concepito nell’aura e nel segno dell’interrogativo, il film funziona e vende, all’opposto perché finalizzato allo svelamento. Lasciamo stare se la riduzione pressuppone scadimento. Il fatto è che l’eterna sfasatura che intercorre tra il cinema e la letteratura trova qui il modo di sanarsi nel rispetto della più assoluta infedeltà stilistica di natura per così dire ideologica ne ha tradito la risultanza sostanziale. Ne deriva che il successo del film non è una variabile indipendente e impazzita, dovuta soltanto a fattori extra-filmici (il bisogno di esserci, oggi caratteristico degli eventi; il film come succedaneo popolare del libro d’élite; la pubblicità martellante, che fa leva su un motivo letterario di cassetta non già per proseguire una linea di ricerca ma per conquistare il box-office). L’eccellente ambientazione, il tono deliberatamente parossistico del coro (l’abbazia come “corte dei miracoli”), l’efficace scansione di colpi di scena e rivelazioni, l’ottima interpretazione di Sean Connery, autentico motore del film: tutto ciò concorre a determinare un livello di gradevolezza che al pubblico è familiare, e che ritorna in termini di consenso.
Roberto Ellero, SegnoCinema 26/1987
ANALISI DEL FILM
“Giunto al termine della mia vita di peccatore mentre declino canuto insieme al mondo, mi accingo a lasciare su questa pergamena testimonianza degli eventi mirabili e tremendi a cui mi accadde di assistere in gioventù sul finire dell'anno del signore 1327, che Dio mi conceda la grazia di essere testimone trasparente e cronista fedele di quanto allora avvenne in un luogo remoto a nord della penisola italiana in un'abbazia di cui è pietoso e saggio tacere anche il nome”
Il film Il nome della rosa si apre sullo schermo nero, la voce over, di un uomo ormai anziano informa gli spettatori dell'anno e del luogo in cui si svolge la vicenda che narrerà.
Al termine iniziano i titoli di testa, da segnalare che alla voce soggetto, si trova scritto: sul palinsesto del romanzo di Umberto Eco.
Qusto per scardinare in anticipo ogni possibile obiezione nel confronto libro/film. Lo stesso scrittore tiene a precisare che: “Un libro e un film sono due soggetti diversi, ed è bene che ciascuno abbia la sua vita. Annaud non va in giro a fornire chiavi di lettura del mio libro al di là di quella che ha fornito traendone un film”.
Mentre per ovviare ad ogni possibile obiezione sulla veridicità storica, tra i consulenti del film è presente lo storico Le Goff, in modo da indirizzare lo spettatore verso l’aspetto più erudito del film.
Primo Giorno
Un uomo anziano e un giovane ragazzo attraversano paesaggi aspri ed innevati. Sulla sommità di una montagna, l'abbazia. Collocata in alto sembra dominare il mondo. I due percorrono sentieri che si inerpicano sulla montagna, poi finalmente i viaggiatori arrivano lungo le mura di cinta del convento da cui svetta, quella che poi scopriremo essere la biblioteca. Il luogo appare sinistro: l'ingresso è protetto da un grande cancello di ferro, subito richiuso, le porte sono serrate da grandi chiavistelli, i frati al lavoro guardano i nuovi arrivati ma non rivolgono loro nessun cenno di saluto. I due monaci appena arrivati appartengono ad un ordine diverso da quello degli altri frati: il loro saio chiaro è in contrasto con quello scuro dei residenti.
Interno/Abbazia
Le prime parole pronunciate da un frate rimandano ad un segreto incoffessabile, che sarà la Santa Inquisizione a scoprire.
Subito dopo vengono presentati i due protagonisti: Jorge da Burgos e Guglielmo da Baskerville.
Jorge, molto anziano e con problemi alla vista, sembra all'apparenza un uomo disilluso e le parole che pronuncia: “Lascio queste cose monadane ad uomini più vigorosi” fanno pensare a qualcuno lontano dalle cose del mondo.
All'opposto, Guglielmo, oltre ad essere molto più giovane, viene descritto come un fine osservatore, un uomo acuto anche nel valutare le cose più semplici della vita. Uno sguardo fuori dalla finestra alle tombe e subito gli spettatori si trovano immersi nel primo mistero che avvolge l'abbazia: la “strana” morte del fine miniaturista Anselmo da Otranto.
Jorge da Burgos cela uno spiritoso richiamo fonico a Jorge Luis Borges lo scrittore argentino, anche lui cieco, che ha scritto l’affascinante racconto La biblioteca di Babele.
Esterno/Cortile
Adso scorge dei monaci che sgozzano degli animali.
Interno/Chiesa
Guglielmo e Adso si recano a salutare Ubertino da Casale, monaco francescano riparato nell'abbazia dopo che i suoi scritti sulla povertà del clero hanno “infastidito” le alte gerarchie ecclesiastiche. Anche Ubertino accenna alla morte di Adelmo e la considera opera del demonio.
Viene così presentato uno dei temi presenti nel film: il complesso rapporto tra la chiesa e i francescani.
Esterno/I cortili
Guglielmo e Adso si aggirano per all'abbazia e ben presto il francescano scopre che Adelmo si è suicidato. Alla maniera di Sherlock Holmes conclude la sua indagine con un “Mio caro Adson è elementare”. Lo sarà per la scoperta di Guglielmo non certo per il clima che si respira all'abbazia: alcuni poveri affamati, tra cui una giovane ragazza, si contendono come animali gli avanzi del cibo, che vengono gettati dalle alte mura del convento; un monaco spia la conversazione tra i due frati. La scena è chiusa dalle parole di Adso, “Questo luogo è abbandonato da Dio”, a cui risponde ironico Guglielmo, “Hai mai conosciuto un luogo dove Dio si possa trovare a suo agio?”.
Annaud ha operato un’accorta e sistematica sottrazione dell’apparato ideologico e concettuale del romanzo, in modo da far emergere la nuda struttura poliziesca, applicata ad una realtà storica incongrua, per cui entra subito in medias res descrivendoci i luoghi dei delitti.
Il film, nonostante lo spazio concesso al dibattito ideologico fra Guglielmo e gli altri, si risolve in un articolato meccanismo poliziesco, nella cui soluzione il francescano ha modo di applicare tutto il suo acume holmesiano. Guglielmo, detective d’antan è un omaggio devoto del semiologo e professore universitario Umberto Eco a Sir Arthur Conan Doyle e alla sua creatura, Sherlock Holmes, così come lo è Adso, il cui nome suona come quello di Watson (oltre che una crasi del dialogo galileano Ad Simplicio), ma il personaggio interpretato da Sean Connery è anche liberamente ispirato alla figura storica di un frate inglese, che fu, con Ubertino da Casale e Michele da Cesena a capo della fazione degli spirituali, il ramo più rigido, pauperista, dell’ordine francescano, ossia Guglielmo da Ockham, autore altresì di un principio logico, detto il “rasoio di Ockham”, secondo il quale la spiegazione più semplice ad un problema è anche la più aderente alla realtà.
La sorniona ironia che a tratti traspare da una consapevolezza e un’apertura mentale tutte moderne non può non richiamare il personaggio classico dell’investigatore incontrato in tante storie poliziesche o di spionaggio, che Sean Connery sottolinea in modo eccellente. Guglielmo stempera il suo pessimismo, che si intuisce originato da una radicata sfiducia nell’uomo, con una punta di scetticismo: quello scetticismo che se da un lato gli consente di prendere le distanze dal mostruoso groviglio che si è impegnato a dipanare, dall’altro rende più aguzze le armi della sua dialettica.
Interno/Refettorio
Durante la cena Guglielmo sembra controllare gli sguardi che un giovane monaco rivolge ad un confratello.
Interno/Cella
Nella cella Adso chiede notizie al frate sul suo passato.
Interno/Cella
Jorge si fa leggere un libro.
Interno/Scriptorium
Il giovane monaco osservato da Guglielmo legge da solo in biblioteca un libro e per la prima volta vediamo qualcuno nell'abbazia che riesce a ridere.
Interno/Cella
In una cella il monaco che guardava il giovane si flagella, Guglielmo sente i suoi gemiti.
Secondo giorno
Interno/Chiesa
I frati in chiesa stanno pregando quando il vociferare si trasforma ben presto in un grido: è morto un altro monaco.
Interno/Rimessa
Ubertino da Casale sconvolto per l'accaduto invoca la profezia dell'Apocalisse, gli altri monaci osservano dipserati il corpo senza vita del giovane che la sera prima abbiamo visto leggere e ridere nello scriptorium.
Interno/Erboristeria
Mentre Guglielmo prepara il cadavere per l'autopsia, l'erborista Severino elenca le diverse qualità delle sue erbe. Il morto è Venanzio, da tempo amico dell’altro monaco morto suicida. Adso esce dalla stanza disgustato.
Guglielmo da Baskerville ha uno stile di pensiero improntato sulla razionalità deduttiva alla maniera degli scolastici, ma ne rifiuta le spiegazioni sovrannaturali. Coinvolto, infatti, dall’abate nel caso di misteriose morti riconducibili alle profezie dell’Apocalisse di Giovanni, Guglielmo giunge alla conclusione che si tratti di omicidi seriali e che il movente dell’assassino sia legato alla segretissima biblioteca, in particolare ad un libro, oggetto del contendere in una congiura tra monaci.
Interno/Cappella
Un monaco deforme che parla uno strano linguaggio assale Adso, Guglielmo venuto in soccorso del giovane lo allontana dalla cappella.
Nella caratterizzazione somatica dei personaggi il film compila un repertorio ben assortito di deformità che avvicina le diverse caratterizzazioni allo stile figurativo dei vecchi horror-movie. Pensiamo all’ex eretico dolciniano Salvatore, il suo aspetto richiama quello del Quasimodo di Lon Chaney e di Charles Laughton (interpreti del gobbo di Notre Dame nel 1923 e nel 1939). Ci vengono pertanto presentati una serie di “mostri” che restituiscono l’immagine di un mondo angustiato dalla fame, dalle malattie e dai quotidiani disagi del vivere. Una visione che si oppone a quella romantica del Medioevo, i cui stereotipi vengono puntigliosamente ribaltati da una regia che di quell’era “oscura” ribadisce gli aspetti negativi.
Esterno/Cortile
E' Penitenziagite, il termine che ha incuriosito Adso. Pronta la risposta di Baskerville: Penitenziagite era il motto dei frati dolciniani, oggi considerati eretici, un tempo paladini del ritorno della chiesa alla povertà. Così radicali nelle loro scelte da uccidere i ricchi per dare tutto ai poveri. Guglielmo continua la sua indagine e dalle orme sulla neve scopre che Venanzio in realtà è stato ucciso nello scriptorium.
Interno/Scriptorium
Guglielmo e Adso si recano nello scriptorium e vengono accolti dal padre bibliotecario. I due chiedono di vedere lo scranno di Adelmo, la richiesta viene accolta con stupore. Stupore che aumenta quando Guglielmo estrae gli occhiali (“oculi di vitro cum capsule”) e scruta il libro al quale lavorava il defunto. Un monaco ha paura di un topo e questo suscita l’ilarità dei confratelli; ilarità che viene interrotta bruscamente dall’arrivo di Jorge: l’anziano benedettino invita tutti al silenzio. Il dialogo con Guglielmo contro il riso, l’invettiva contro la Poetica di Aristotele, che secondo Jorge non è mai stata scritta, regalano ulteriori sfaccettature psicoligiche al personaggio di Burgos e lo definiscono come l’antagonista di Baskerville. Un frate, l’aiuto bibliotecario, copre con un libro il tavolo di Venanzio.
Soggetto: dal romanzo omonimo di Umberto Eco
Sceneggiatura: Andrew Birkin, Gerard Brach, Howard Franklin, Alain Godard
Fotografia: Tonino Delli Colli
Scenografia: Dante Ferretti
Costumi: Gabriella Pascucci
Musica: James Horner
Montaggio: Jane Seitz
Intepreti: Sean Connery (Guglielmo da Baskerville), Christian Slater (Adso da Melk), F. Murray Abraham (Bernardo Gui), Feodor Chaliapin Jr. (Jorge Da Burgos), Michael Lonsdale (L'abate), Valentina Vargas (La Ragazza), Ron Perlman (Salvatore), Helmut Qualtinger (Remigio), Volker Prechtel (Malachia), William Hickey (Ubertino da Casale), Michael Habeck (Berengario), Elya Baskin (Severino).
Produzione: Cristaldi Film Roma
Origine: Francia/Italia/Germania
Anno Di Edizione: 1986
Durata: 132’
Sinossi
Nell'autunno del 1327 giunge in un maestoso monastero italiano il francescano Guglielmo da Baskerville con il novizio Adso per un incontro tra francescani e delegati papali. Morti misteriose si succedono e le indagini di Guglielmo vengono ostacolate. Il delegato papale procede con metodo inquisitorio: eresia e omicidio per lui si identificano, ma la soluzione sta da un'altra parte.
Cinema e storia
Filmare avvenimenti storici, recenti o lontani nel tempo, è uno dei temi più sfruttati dal cinema, fin dalle sue origini.
La possibilità di rendere visibile la "scena della storia" con un realismo che non ha eguali rispetto al teatro, al romanzo o alla pittura, rappresenta una delle carte vincenti del cinema dei primitivi. Grazie al potere di fascinazione delle immagini in movimento, il cinema regala alle rappresentazioni quell'alone di "verità" che lo rende tanto suggestivo e fascinoso.
Tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento, inoltre, il cinema attinge le sue storie saccheggiando il romanzo "storico", per cui le riprende da una materia familiare agli spettatori dell'epoca, visto che il romanticismo ha imposto il romanzo "storico" come il genere di maggior fortuna popolare.
Da questo primo atteggiamento che potremmo definire "parassitario", il cinema trova poi una sua personale dimensione narrativa e si afferma attraverso le proprie specifiche peculiarità espressive.
Parallelamente alla definitiva affermazione del cinema nasce anche il dibattito intorno al cinema come fonte storica.
Intorno ai primi anni del secolo il cinema e la fotografia vengono celebrati come strumenti oggettivi di riproduzione del reale. In questi anni prevale ancora l'utopia di origine positivistica della "storia scritta dal fulmine" (1), per cui il cinema e la fotografia vengono considerati come documenti oggettivi, capaci di sottrarsi ad ogni possibile manipolazione.
Questa idea declina rapidamente e per i "documenti scritti dalla luce" inizia un periodo di diffidenza che persisterà per molti anni, tanto da toccare anche i nostri giorni.
Ma perchè tanta diffidenza?
Un primo elemento di perplessità è da amputarsi alla natura non verbale del cinema. Se molte delle informazioni presenti in un film vengono ricavate dalle immagini, si presenta un problema di "traduzione" dal linguaggio iconico a quello verbale. Questa complessa operazione di traduzione spesso va a discapito del film, in quanto rischia di sopprimere gli aspetti più originali di un'opera cinematografica, quelli legati al valore dell'immagine.
La soluzione più semplice che si è trovata, è stata quella di ridurre la lettura del film al contenuto.
Un secondo motivo riguarda lo statuto di "verità" dell'immagine cinematografica e quindi anche del cinema. Al di là della sua abbagliante capacità di persuasione e di ricostruzione del passato è difficile rintracciare nel film quella verità tanto importante per gli storici. Come scrive Peppino Ortoleva: "Salvare e depurare la verità del cinema, liberandola dalle possibili manipolazioni, oppure al contrario rinunciarvi decisamente, cercando allora nel film non i frammenti di 'realtà fisica' più o meno rilevanti per lo storico, ma al contrario i sogni, le fantasticherie, la proiezione del corpo ma della psiche, più o meno cosciente, della società; esaltare il 'fatto', sopprimendo ogni forma, quasi ogni sospetto, di 'finzione', oppure al contrario ricondurre tutto il cinema a 'finzione', a invenzione fantastica, che a sua volta permetterebbe di giungere a una verità meno banale, quella appunto delle mentalità e delle convenzioni dominanti nella società, quelle delle mitologie collettive: è questo il dilemma a cui si è trovata di fronte in modo rigoroso il problema della 'verità' del film " (2).
Un terzo motivo di disagio riguarda l'intenzionalità soggettiva dell'autore o degli autori che hanno realizzato un film. Come diceva Orson Welles, "il poeta ha bisogno di una penna, il pittore di un pennello, chi fa cinema ha bisogno di un esercito", per cui risulta difficile definire uno e un solo autore, quando il film è il prodotto di una serie di professionalità.
Comunque a parte i distinguo e le perplessità degli storici, spetta a Pierre Sorlin aver teorizzato la possibilità concreta di utilizzare il cinema come fonte storica.
La prima e fondamentale caratteristica del suo lavoro, sta nell'attenzione rivolta al film non solo come oggetto del sapere, ma anche come strumento di trasmissione del sapere, diverso e complementare rispetto alla scrittura. Il cinema è per lui documento del suo tempo e oggetto storiografico da sottoporre ad un'analisi rigorosa e fondata sulla pluralità delle fonti. Senza dimenticare la necessaria compresenza in un film storico di documento e finzione: "anche se non basati su documenti (essi) devono ricostruire in modo puramente immaginario la maggior parte di quello che mostrano (...), fiction e storia reagiscono costantemente l'una sull'altra. Ed è impossibile studiare la seconda ignorando la prima" (3)
L'interferire di questi due piani in ogni opera di fantasia ispirata al passato leggittima quindi quel margine di arbitrio esercitato da molti registi per necessità squisitamente artistiche, ma più spesso per far coincidere un periodo storico con i modelli che di questo il pubblico è disposto ad accettare.
In questo senso spesso al cinema il passato è stato "osservato" e raccontato con la lente del presente; pensiamo, per esempio, all'equazione che si stabilisce tra fascismo ed epoca romana in Scipione l'Africano (Carmine Gallone, 1936).
In sintesi queste sono le tappe del dibattito teorico, ma la scuola come può utilizzare il cinema come fonte storica?
Scrive in proposito Peppino Ortoleva: "se pensiamo alla didattica della storia come un processo, una costruzione per fasi diverse, nella quale l'insegnante deve stimolare interrogativi, proporre ipotesi, interrogare fonti, giungere a primi risultati per poi verificarli insieme con gli allievi, allora l'uso apparentemente ingenuo del film come 'macchina del tempo' può ritrovare un suo spazio. La messa in scena del passato attraverso il passato stesso, la capacità evocativa del cinema, possono servire non tanto a dare risposte quanto a sollecitare curiosità, non tanto a mostrarci il passato 'come realmente era' quanto a indurci al confronto, all'approfondimento, a sempre nuove domande. Si può dire che uno stesso film dovrebbe, idealmente, comparire in un percorso didattico due volte, o forse tre: una prima volta, con tutta la sua carica di mistero e di inquietudine, per introdurre un periodo o un evento; una seconda volta, 'letto' con l'aiuto del videoregistratore a confronto con altri documenti coevi, per essere interpretato a tutti gli effetti come fonte, e come fonte complessa; e magari una terza volta, per essere di nuovo goduto a pieno come racconto, cogliendo tutte le sfumature che l'interpretazione storica ha consentito di riconoscere, ma trascorrendo l'atto interpretativo nel piacere dello spettacolo. Fra l'uso del film come meravigliosa macchina del tempo e la sua lettura come documento si può stabilire, in sostanza, non una contrapposizione, ma una complementarietà, una dialettica, che andrà guidata, amministrata, dall'insegnante". (4)
Rapporto libro/film
Confesso di aver letto il best-seller di Eco quando già si sapeva del film di Annaud. E soprattutto quando già s’era dato un volto all’incredibile personaggio di Guglielmo da Baskerville, quello di Sean Connery. Si sa come va in questi casi: uno legge pensando alle immagini, al cinema che potrà essere, anche se ciò che sta leggendo è quanto di meno cinematografico esista. Impossibile dar conto nell’economia delle due ore all’inestricabile dedalo di considerazioni filosofiche e di rimandi storici di cui è l’ordito del romanzesco. Impensabile tradurre in immagini e scandire dialogicamente un racconto che è anche e soprattutto un ragionamento. Tutto vero, e a leggere il libro pensando che ogni pagina dovrà diventare immagine c’è di che dubitare. Eppure, nell’improbabilità dell’adattamento cinematografico, di qualsiasi adattamento cinematografico conforme alle regole della fiction e dello spettacolo, c’è di che rallegrarsi per i risultati raggiunti da Annaud, il quale – evitando ogni possibile trasposizione “colta” – da un libro fortemente d’autore, personalizzato al massimo, ha scelto di trarre un film se possibile anonimo, dove la regia è alto mestiere: non interpretazione, non rienvenzione linguistica. In termini di transcodificazione ciò significa che se il libro funziona e vende perché concepito nell’aura e nel segno dell’interrogativo, il film funziona e vende, all’opposto perché finalizzato allo svelamento. Lasciamo stare se la riduzione pressuppone scadimento. Il fatto è che l’eterna sfasatura che intercorre tra il cinema e la letteratura trova qui il modo di sanarsi nel rispetto della più assoluta infedeltà stilistica di natura per così dire ideologica ne ha tradito la risultanza sostanziale. Ne deriva che il successo del film non è una variabile indipendente e impazzita, dovuta soltanto a fattori extra-filmici (il bisogno di esserci, oggi caratteristico degli eventi; il film come succedaneo popolare del libro d’élite; la pubblicità martellante, che fa leva su un motivo letterario di cassetta non già per proseguire una linea di ricerca ma per conquistare il box-office). L’eccellente ambientazione, il tono deliberatamente parossistico del coro (l’abbazia come “corte dei miracoli”), l’efficace scansione di colpi di scena e rivelazioni, l’ottima interpretazione di Sean Connery, autentico motore del film: tutto ciò concorre a determinare un livello di gradevolezza che al pubblico è familiare, e che ritorna in termini di consenso.
Roberto Ellero, SegnoCinema 26/1987
ANALISI DEL FILM
“Giunto al termine della mia vita di peccatore mentre declino canuto insieme al mondo, mi accingo a lasciare su questa pergamena testimonianza degli eventi mirabili e tremendi a cui mi accadde di assistere in gioventù sul finire dell'anno del signore 1327, che Dio mi conceda la grazia di essere testimone trasparente e cronista fedele di quanto allora avvenne in un luogo remoto a nord della penisola italiana in un'abbazia di cui è pietoso e saggio tacere anche il nome”
Il film Il nome della rosa si apre sullo schermo nero, la voce over, di un uomo ormai anziano informa gli spettatori dell'anno e del luogo in cui si svolge la vicenda che narrerà.
Al termine iniziano i titoli di testa, da segnalare che alla voce soggetto, si trova scritto: sul palinsesto del romanzo di Umberto Eco.
Qusto per scardinare in anticipo ogni possibile obiezione nel confronto libro/film. Lo stesso scrittore tiene a precisare che: “Un libro e un film sono due soggetti diversi, ed è bene che ciascuno abbia la sua vita. Annaud non va in giro a fornire chiavi di lettura del mio libro al di là di quella che ha fornito traendone un film”.
Mentre per ovviare ad ogni possibile obiezione sulla veridicità storica, tra i consulenti del film è presente lo storico Le Goff, in modo da indirizzare lo spettatore verso l’aspetto più erudito del film.
Primo Giorno
Un uomo anziano e un giovane ragazzo attraversano paesaggi aspri ed innevati. Sulla sommità di una montagna, l'abbazia. Collocata in alto sembra dominare il mondo. I due percorrono sentieri che si inerpicano sulla montagna, poi finalmente i viaggiatori arrivano lungo le mura di cinta del convento da cui svetta, quella che poi scopriremo essere la biblioteca. Il luogo appare sinistro: l'ingresso è protetto da un grande cancello di ferro, subito richiuso, le porte sono serrate da grandi chiavistelli, i frati al lavoro guardano i nuovi arrivati ma non rivolgono loro nessun cenno di saluto. I due monaci appena arrivati appartengono ad un ordine diverso da quello degli altri frati: il loro saio chiaro è in contrasto con quello scuro dei residenti.
Interno/Abbazia
Le prime parole pronunciate da un frate rimandano ad un segreto incoffessabile, che sarà la Santa Inquisizione a scoprire.
Subito dopo vengono presentati i due protagonisti: Jorge da Burgos e Guglielmo da Baskerville.
Jorge, molto anziano e con problemi alla vista, sembra all'apparenza un uomo disilluso e le parole che pronuncia: “Lascio queste cose monadane ad uomini più vigorosi” fanno pensare a qualcuno lontano dalle cose del mondo.
All'opposto, Guglielmo, oltre ad essere molto più giovane, viene descritto come un fine osservatore, un uomo acuto anche nel valutare le cose più semplici della vita. Uno sguardo fuori dalla finestra alle tombe e subito gli spettatori si trovano immersi nel primo mistero che avvolge l'abbazia: la “strana” morte del fine miniaturista Anselmo da Otranto.
Jorge da Burgos cela uno spiritoso richiamo fonico a Jorge Luis Borges lo scrittore argentino, anche lui cieco, che ha scritto l’affascinante racconto La biblioteca di Babele.
Esterno/Cortile
Adso scorge dei monaci che sgozzano degli animali.
Interno/Chiesa
Guglielmo e Adso si recano a salutare Ubertino da Casale, monaco francescano riparato nell'abbazia dopo che i suoi scritti sulla povertà del clero hanno “infastidito” le alte gerarchie ecclesiastiche. Anche Ubertino accenna alla morte di Adelmo e la considera opera del demonio.
Viene così presentato uno dei temi presenti nel film: il complesso rapporto tra la chiesa e i francescani.
Esterno/I cortili
Guglielmo e Adso si aggirano per all'abbazia e ben presto il francescano scopre che Adelmo si è suicidato. Alla maniera di Sherlock Holmes conclude la sua indagine con un “Mio caro Adson è elementare”. Lo sarà per la scoperta di Guglielmo non certo per il clima che si respira all'abbazia: alcuni poveri affamati, tra cui una giovane ragazza, si contendono come animali gli avanzi del cibo, che vengono gettati dalle alte mura del convento; un monaco spia la conversazione tra i due frati. La scena è chiusa dalle parole di Adso, “Questo luogo è abbandonato da Dio”, a cui risponde ironico Guglielmo, “Hai mai conosciuto un luogo dove Dio si possa trovare a suo agio?”.
Annaud ha operato un’accorta e sistematica sottrazione dell’apparato ideologico e concettuale del romanzo, in modo da far emergere la nuda struttura poliziesca, applicata ad una realtà storica incongrua, per cui entra subito in medias res descrivendoci i luoghi dei delitti.
Il film, nonostante lo spazio concesso al dibattito ideologico fra Guglielmo e gli altri, si risolve in un articolato meccanismo poliziesco, nella cui soluzione il francescano ha modo di applicare tutto il suo acume holmesiano. Guglielmo, detective d’antan è un omaggio devoto del semiologo e professore universitario Umberto Eco a Sir Arthur Conan Doyle e alla sua creatura, Sherlock Holmes, così come lo è Adso, il cui nome suona come quello di Watson (oltre che una crasi del dialogo galileano Ad Simplicio), ma il personaggio interpretato da Sean Connery è anche liberamente ispirato alla figura storica di un frate inglese, che fu, con Ubertino da Casale e Michele da Cesena a capo della fazione degli spirituali, il ramo più rigido, pauperista, dell’ordine francescano, ossia Guglielmo da Ockham, autore altresì di un principio logico, detto il “rasoio di Ockham”, secondo il quale la spiegazione più semplice ad un problema è anche la più aderente alla realtà.
La sorniona ironia che a tratti traspare da una consapevolezza e un’apertura mentale tutte moderne non può non richiamare il personaggio classico dell’investigatore incontrato in tante storie poliziesche o di spionaggio, che Sean Connery sottolinea in modo eccellente. Guglielmo stempera il suo pessimismo, che si intuisce originato da una radicata sfiducia nell’uomo, con una punta di scetticismo: quello scetticismo che se da un lato gli consente di prendere le distanze dal mostruoso groviglio che si è impegnato a dipanare, dall’altro rende più aguzze le armi della sua dialettica.
Interno/Refettorio
Durante la cena Guglielmo sembra controllare gli sguardi che un giovane monaco rivolge ad un confratello.
Interno/Cella
Nella cella Adso chiede notizie al frate sul suo passato.
Interno/Cella
Jorge si fa leggere un libro.
Interno/Scriptorium
Il giovane monaco osservato da Guglielmo legge da solo in biblioteca un libro e per la prima volta vediamo qualcuno nell'abbazia che riesce a ridere.
Interno/Cella
In una cella il monaco che guardava il giovane si flagella, Guglielmo sente i suoi gemiti.
Secondo giorno
Interno/Chiesa
I frati in chiesa stanno pregando quando il vociferare si trasforma ben presto in un grido: è morto un altro monaco.
Interno/Rimessa
Ubertino da Casale sconvolto per l'accaduto invoca la profezia dell'Apocalisse, gli altri monaci osservano dipserati il corpo senza vita del giovane che la sera prima abbiamo visto leggere e ridere nello scriptorium.
Interno/Erboristeria
Mentre Guglielmo prepara il cadavere per l'autopsia, l'erborista Severino elenca le diverse qualità delle sue erbe. Il morto è Venanzio, da tempo amico dell’altro monaco morto suicida. Adso esce dalla stanza disgustato.
Guglielmo da Baskerville ha uno stile di pensiero improntato sulla razionalità deduttiva alla maniera degli scolastici, ma ne rifiuta le spiegazioni sovrannaturali. Coinvolto, infatti, dall’abate nel caso di misteriose morti riconducibili alle profezie dell’Apocalisse di Giovanni, Guglielmo giunge alla conclusione che si tratti di omicidi seriali e che il movente dell’assassino sia legato alla segretissima biblioteca, in particolare ad un libro, oggetto del contendere in una congiura tra monaci.
Interno/Cappella
Un monaco deforme che parla uno strano linguaggio assale Adso, Guglielmo venuto in soccorso del giovane lo allontana dalla cappella.
Nella caratterizzazione somatica dei personaggi il film compila un repertorio ben assortito di deformità che avvicina le diverse caratterizzazioni allo stile figurativo dei vecchi horror-movie. Pensiamo all’ex eretico dolciniano Salvatore, il suo aspetto richiama quello del Quasimodo di Lon Chaney e di Charles Laughton (interpreti del gobbo di Notre Dame nel 1923 e nel 1939). Ci vengono pertanto presentati una serie di “mostri” che restituiscono l’immagine di un mondo angustiato dalla fame, dalle malattie e dai quotidiani disagi del vivere. Una visione che si oppone a quella romantica del Medioevo, i cui stereotipi vengono puntigliosamente ribaltati da una regia che di quell’era “oscura” ribadisce gli aspetti negativi.
Esterno/Cortile
E' Penitenziagite, il termine che ha incuriosito Adso. Pronta la risposta di Baskerville: Penitenziagite era il motto dei frati dolciniani, oggi considerati eretici, un tempo paladini del ritorno della chiesa alla povertà. Così radicali nelle loro scelte da uccidere i ricchi per dare tutto ai poveri. Guglielmo continua la sua indagine e dalle orme sulla neve scopre che Venanzio in realtà è stato ucciso nello scriptorium.
Interno/Scriptorium
Guglielmo e Adso si recano nello scriptorium e vengono accolti dal padre bibliotecario. I due chiedono di vedere lo scranno di Adelmo, la richiesta viene accolta con stupore. Stupore che aumenta quando Guglielmo estrae gli occhiali (“oculi di vitro cum capsule”) e scruta il libro al quale lavorava il defunto. Un monaco ha paura di un topo e questo suscita l’ilarità dei confratelli; ilarità che viene interrotta bruscamente dall’arrivo di Jorge: l’anziano benedettino invita tutti al silenzio. Il dialogo con Guglielmo contro il riso, l’invettiva contro la Poetica di Aristotele, che secondo Jorge non è mai stata scritta, regalano ulteriori sfaccettature psicoligiche al personaggio di Burgos e lo definiscono come l’antagonista di Baskerville. Un frate, l’aiuto bibliotecario, copre con un libro il tavolo di Venanzio.
Questa sequenza è molto importante perché è nello scriptorium che ha luogo la querelle centrale del film: l’impulso che spinge l’uomo al riso. A sostegno di questa tesi Guglielmo cita la Poetica di Aristotele, e questo provoca l’immediata reazione di Jorge da Burgos, il quale non esita a negare l’esistenza stessa del libro. Il benedettino si appunta contro questa salutare dispozione allo spirito: il riso. Il riso si sa fa dubitare delle certezze acquisite, genera quella critica che fa traballare troni e altari. Per cui l’anziano frate non tollera la presenza di testi che ne convalidino la legittimità, anzi vanno eliminati.
Un velo impalpabile di disagio si stende in tutto il film. Non si vede nessuno sorridere: soltanto il traduttore Venanzio atteggia il viso ad un’espressione gioiosa nel momento in cui ha messo le mani sul libro proibito. Ma nel momento in cui ha varcato i confini precipita, non soltanto metaforicamente, il mondo nel caos. L’abbazia viene travolta nello spaventoso rogo finale proprio mentre l’indomito Guglielmo ha finalmente sciolto l’enigma.
Nutrimento dello spirito, la biblioteca è collocata nella parte più alta dell’edificio. In basso ci sono la cucina e il refettorio, dove si alimenta il corpo e si soddisfano i suoi istinti, ma da cui sale il calore indispensabile a riscaldare i gelidi ambienti sovrastanti. Sia nel romanzo che nel film la biblioteca, alta e chiusa come una fortezza, assume una connotazione negativa in quanto segno di isolamento, ambizione, lussuria della parola, fonte di corruzione. Cultura aristocratica, chiusa, severa negatrice del riso che fa dire la verità, incapace di apprezzare il mondo nuovo che è fuori laggiù, nelle città operose, dove sta nascendo un modello di cultura laica che ha trovato nell’uso del volgare lo strumento agile per una comunicazione più ampia.
Esterno/Cortile
Guglielmo e Adso camminano all’interno dell’abbazia, quando qualcuno tenta di ucciderli lanciando loro una pietra. Ben presto viene scoperto il colpevole: è Salvatore, il frate deforme. In suo soccorso arriva il confratello Remigio che chiede di non denunciarlo. Guglielmo accetta in cambio di un favore.
Interno/Scriptorium
Di notte Remigio fa entrare Guglielmo e Adso nello scriptorium. All’interno l’aiuto bibliotecario (lo stesso che ha coperto il tavolo di Venanzio) sente arrivare qualcuno e si nasconde. Guglielmo e Adso sotto lo scranno dove lavorava Venanzio scoprono una pergamena. Baskerville la esamina, la annusa e lo fa scorrere vicino al fuoco di una candela: compare una scritta. Le parole sagittario, sole, mercurio, scorpione risultano incomprensibili anche ad un uomo esperto come il francescano. I due si accorgono del monaco nascosto. Lui fugge via portandosi dietro un libro e gli occhiali di Guglielmo. Adso e Guglielmo lo inseguono, lasciano lo scriptorium e si dividono.
Interno/Cucina
Adso corre in cucina, vede arrivare Remigio e si nasconde. Nel nascondiglio incontra la giovane che il giorno prima ha visto cercare il cibo tra i rifiuti.
Interno/Erboristeria
L’aiuto bibliotecario nasconde il libro nell’erboristeria, poi prende un barattolo e si allontana.
Interno/Cucina
Adso e la ragazza si amano.
Alla struttura tipica del giallo si affianca quella del romanzo di formazione. Così il giovane Adso, spaventato da eventi dei quali non comprende la causa, nel giro di una settimana attraversa quasi tutti i gradi dell’iniziazione umana: quaella alla propria identità, al patrimonio culturale, alla paura, al sesso e all’amore.
Esterno/Cimitero
Guglielmo incontra Salvatore e gli carpisce un altro segreto: scopre che Venanzio ha dato una pergamena ad Adelmo e che la chiave dell’enigma è Berengario, l’aiuto bibliotecario.
Interno/Cucina
Adso scopre in cucina un cuore sanguinolento. Appena incontrato Guglielmo lo porta a vedere la sua scoperta. Come sempre Baskerville lo tratta da ingenuo: il cuore è molto grande non appartiene ad un essere umano, ma ad un bue. Probabilmente un frate voleva darlo ad una ragazza che ha visto uscire di corsa.
Interno/Cella
Adso turbato per l’incontro con la ragazza ne parla a Guglielmo, il responso del frate è semplice: il giovane è innamorato.
Terzo giorno
Un velo impalpabile di disagio si stende in tutto il film. Non si vede nessuno sorridere: soltanto il traduttore Venanzio atteggia il viso ad un’espressione gioiosa nel momento in cui ha messo le mani sul libro proibito. Ma nel momento in cui ha varcato i confini precipita, non soltanto metaforicamente, il mondo nel caos. L’abbazia viene travolta nello spaventoso rogo finale proprio mentre l’indomito Guglielmo ha finalmente sciolto l’enigma.
Nutrimento dello spirito, la biblioteca è collocata nella parte più alta dell’edificio. In basso ci sono la cucina e il refettorio, dove si alimenta il corpo e si soddisfano i suoi istinti, ma da cui sale il calore indispensabile a riscaldare i gelidi ambienti sovrastanti. Sia nel romanzo che nel film la biblioteca, alta e chiusa come una fortezza, assume una connotazione negativa in quanto segno di isolamento, ambizione, lussuria della parola, fonte di corruzione. Cultura aristocratica, chiusa, severa negatrice del riso che fa dire la verità, incapace di apprezzare il mondo nuovo che è fuori laggiù, nelle città operose, dove sta nascendo un modello di cultura laica che ha trovato nell’uso del volgare lo strumento agile per una comunicazione più ampia.
Esterno/Cortile
Guglielmo e Adso camminano all’interno dell’abbazia, quando qualcuno tenta di ucciderli lanciando loro una pietra. Ben presto viene scoperto il colpevole: è Salvatore, il frate deforme. In suo soccorso arriva il confratello Remigio che chiede di non denunciarlo. Guglielmo accetta in cambio di un favore.
Interno/Scriptorium
Di notte Remigio fa entrare Guglielmo e Adso nello scriptorium. All’interno l’aiuto bibliotecario (lo stesso che ha coperto il tavolo di Venanzio) sente arrivare qualcuno e si nasconde. Guglielmo e Adso sotto lo scranno dove lavorava Venanzio scoprono una pergamena. Baskerville la esamina, la annusa e lo fa scorrere vicino al fuoco di una candela: compare una scritta. Le parole sagittario, sole, mercurio, scorpione risultano incomprensibili anche ad un uomo esperto come il francescano. I due si accorgono del monaco nascosto. Lui fugge via portandosi dietro un libro e gli occhiali di Guglielmo. Adso e Guglielmo lo inseguono, lasciano lo scriptorium e si dividono.
Interno/Cucina
Adso corre in cucina, vede arrivare Remigio e si nasconde. Nel nascondiglio incontra la giovane che il giorno prima ha visto cercare il cibo tra i rifiuti.
Interno/Erboristeria
L’aiuto bibliotecario nasconde il libro nell’erboristeria, poi prende un barattolo e si allontana.
Interno/Cucina
Adso e la ragazza si amano.
Alla struttura tipica del giallo si affianca quella del romanzo di formazione. Così il giovane Adso, spaventato da eventi dei quali non comprende la causa, nel giro di una settimana attraversa quasi tutti i gradi dell’iniziazione umana: quaella alla propria identità, al patrimonio culturale, alla paura, al sesso e all’amore.
Esterno/Cimitero
Guglielmo incontra Salvatore e gli carpisce un altro segreto: scopre che Venanzio ha dato una pergamena ad Adelmo e che la chiave dell’enigma è Berengario, l’aiuto bibliotecario.
Interno/Cucina
Adso scopre in cucina un cuore sanguinolento. Appena incontrato Guglielmo lo porta a vedere la sua scoperta. Come sempre Baskerville lo tratta da ingenuo: il cuore è molto grande non appartiene ad un essere umano, ma ad un bue. Probabilmente un frate voleva darlo ad una ragazza che ha visto uscire di corsa.
Interno/Cella
Adso turbato per l’incontro con la ragazza ne parla a Guglielmo, il responso del frate è semplice: il giovane è innamorato.
Terzo giorno
Esterno/Montagne
Gli altri francescani stanno arrivando nelle vicinanze dell’abbazia.
Interno/Cella
Guglielmo e Adso entrano nella cella di Berengario e non lo trovano.
Interno/Scriptorium
Lo cercano anche nello scriptorium, trovano aperta la porta della biblioteca ma quando cercano di entrare arriva Malachia che ostruisce loro il passaggio: per ordine dell’abate in biblioteca non può entrare nessuno.
Interno/Chiesa
Poco dopo, durante l’ora della preghiera, Berengario non è presente alla funzione.
Esterno/Abbazia
Michele da Cesena e gli altri fratelli arrivano all’abbazia e sono molto preoccupati per il confronto con la delegazione pontificia: temono che il Papa li giudichi eretici. L'erborista Severino chiama Guglielmo.
Interno/Bagno
Berengario giace morente in una vasca da bagno. Guglielmo recupera gli occhiali scomparsi e dalle scarpe dell'aiuto bibliotecario intuisce che è stato lui a trascinare il corpo di Venanzio fino al porcile.
Interno/Erboristeria
Esaminando il corpo del frate, Guglielmo scopre che è mancino, che ha un dito macchiato di inchiostro e che anche la lingua è diventata nera. Probabilmente si è accorto di stare male, nella vasca sono state ritrovate delle foglie di cedro che alleviano il dolore.
Interno/Cappella
Guglielmo mostra al padre la pergamena trovata in biblioteca e dimostra come i frati uccisi si siano passati quel foglio. Berengario ha interesse per i giovani monaci e ha circuito Adelmo ha cui ha dato uno libro. Adelmo sconvolto per questo si è suicidato, ma prima di morire ha passato il volume a Venanzio. La scena ha avuto un testimone in Salvatore. Guglielmo deduce che nell'abbazia esista un segreto legato ai libri. Sopraggiunge Jorge, che contrario a questa deduzione logica, accusa Guglielmo di avere la mente offuscata dalla ragione. Intanto sta arrivando la delegazione pontificia guidata da Bernardo Gui che si occuperà del caso. La notizia e il nome del delegato pontificio sconcertano Guglielmo.
Il film oscilla tra opposti poli dialettici e sembra segnato da toni apocalittici. Gli sfondi ambientali passano spesso in secondo piano, la macchina da presa preferisce aggirarsi in luoghi marginali, in angoli nascosti. Abbondano per cui i primi piani, a cui si contrappongono pochi campi lunghi, talvolta in funzione descrittiva; i luoghi ripropongono quelli canonici dell’architettura medievale, con qualche vaga ma pur riconoscibile citazione, come ad esempio il federiciano Castel del Monte.
Talvolta questi totali suggeriscono la presenza di occhi indiscreti che da lontano osservano, non visti, i movimenti dei vari personaggi. E’ questa una soluzione visiva funzionale al racconto poliziesco, al quale allude l’investigazione de Il nome della rosa.
Seguendo le indicazioni di Eco, che nel libro ne allega anche la pianta, l’abbazia è ricostruista puntigliosamente in tutti i suoi spazi: la cucina, il refettorio, lo scriptorium e la monumentale biblioteca organizzata come un labirinto.
Esterno/Cortile abbazia
Ubertino deve andarsene. I francescani sono spaventati e non vogliono che Guglielmo continui le sue indagine, temono che questo crei problemi con la delegazione pontificia. Guglielmo ha avuto in passato divergenze con Gui.
Interno/Chiesa
Guglielmo e Adso vedono uscire Malachia dal retro di un altare.
Interno/Abbazia
Di notte Guglielmo e Adso trovano un passaggio segreto ed arrivano in biblioteca. Guglielmo è felice e contento come un bambino, affascinato dai libri e dal loro contenuto. Per accedere al libro proibito devono decifrare l'enigma, scritto nella pergamena: “Premendo la mano sopra l'idolo del primo e il settimo di quattro”. Ben presto si accorgono che la biblioteca è un labirinto: Adso si spaventa per uno specchio e Guglielmo rischia di cadere in una botola.
Esterno/Cortile abbazzia
Arriva Bernardo Gui.
Interno/Biblioteca
Adso con astuzia sfila dall'abito un canapo e così i due riescono ad uscire dalla biblioteca.
Interno/Stalla
Salvatore con un gallo e un gatto nero compie un rito satanico. Vicino a lui la ragazza amata da Adso prende il gallo e cerca di fuggire dalle lussuriose voglie del monaco. Cade un lume che incendia la stalla. Arrivano gli altri frati e trovano i due, per Bernardo Gui non ci sono dubbi: questo è opera del demonio.
Interno/Cella
Adso è turbato e chiede chiarimenti al maestro sul suo passato di inquisitore. Guglielmo confessa di aver preso parte ad alcuni processi, quando “l'Inquisizione voleva guidare e non punire” ma poi, dopo che ha assolto un uomo, è stato accusato di eresia. Condannato anche dal Papa è stato incarcerato e torturato fino a che non ha ritrattato.
Interno/Abazia
Salvatore sta per essere torturato, Gui chiede una confessione.
Quarto giorno
Gli altri francescani stanno arrivando nelle vicinanze dell’abbazia.
Interno/Cella
Guglielmo e Adso entrano nella cella di Berengario e non lo trovano.
Interno/Scriptorium
Lo cercano anche nello scriptorium, trovano aperta la porta della biblioteca ma quando cercano di entrare arriva Malachia che ostruisce loro il passaggio: per ordine dell’abate in biblioteca non può entrare nessuno.
Interno/Chiesa
Poco dopo, durante l’ora della preghiera, Berengario non è presente alla funzione.
Esterno/Abbazia
Michele da Cesena e gli altri fratelli arrivano all’abbazia e sono molto preoccupati per il confronto con la delegazione pontificia: temono che il Papa li giudichi eretici. L'erborista Severino chiama Guglielmo.
Interno/Bagno
Berengario giace morente in una vasca da bagno. Guglielmo recupera gli occhiali scomparsi e dalle scarpe dell'aiuto bibliotecario intuisce che è stato lui a trascinare il corpo di Venanzio fino al porcile.
Interno/Erboristeria
Esaminando il corpo del frate, Guglielmo scopre che è mancino, che ha un dito macchiato di inchiostro e che anche la lingua è diventata nera. Probabilmente si è accorto di stare male, nella vasca sono state ritrovate delle foglie di cedro che alleviano il dolore.
Interno/Cappella
Guglielmo mostra al padre la pergamena trovata in biblioteca e dimostra come i frati uccisi si siano passati quel foglio. Berengario ha interesse per i giovani monaci e ha circuito Adelmo ha cui ha dato uno libro. Adelmo sconvolto per questo si è suicidato, ma prima di morire ha passato il volume a Venanzio. La scena ha avuto un testimone in Salvatore. Guglielmo deduce che nell'abbazia esista un segreto legato ai libri. Sopraggiunge Jorge, che contrario a questa deduzione logica, accusa Guglielmo di avere la mente offuscata dalla ragione. Intanto sta arrivando la delegazione pontificia guidata da Bernardo Gui che si occuperà del caso. La notizia e il nome del delegato pontificio sconcertano Guglielmo.
Il film oscilla tra opposti poli dialettici e sembra segnato da toni apocalittici. Gli sfondi ambientali passano spesso in secondo piano, la macchina da presa preferisce aggirarsi in luoghi marginali, in angoli nascosti. Abbondano per cui i primi piani, a cui si contrappongono pochi campi lunghi, talvolta in funzione descrittiva; i luoghi ripropongono quelli canonici dell’architettura medievale, con qualche vaga ma pur riconoscibile citazione, come ad esempio il federiciano Castel del Monte.
Talvolta questi totali suggeriscono la presenza di occhi indiscreti che da lontano osservano, non visti, i movimenti dei vari personaggi. E’ questa una soluzione visiva funzionale al racconto poliziesco, al quale allude l’investigazione de Il nome della rosa.
Seguendo le indicazioni di Eco, che nel libro ne allega anche la pianta, l’abbazia è ricostruista puntigliosamente in tutti i suoi spazi: la cucina, il refettorio, lo scriptorium e la monumentale biblioteca organizzata come un labirinto.
Esterno/Cortile abbazia
Ubertino deve andarsene. I francescani sono spaventati e non vogliono che Guglielmo continui le sue indagine, temono che questo crei problemi con la delegazione pontificia. Guglielmo ha avuto in passato divergenze con Gui.
Interno/Chiesa
Guglielmo e Adso vedono uscire Malachia dal retro di un altare.
Interno/Abbazia
Di notte Guglielmo e Adso trovano un passaggio segreto ed arrivano in biblioteca. Guglielmo è felice e contento come un bambino, affascinato dai libri e dal loro contenuto. Per accedere al libro proibito devono decifrare l'enigma, scritto nella pergamena: “Premendo la mano sopra l'idolo del primo e il settimo di quattro”. Ben presto si accorgono che la biblioteca è un labirinto: Adso si spaventa per uno specchio e Guglielmo rischia di cadere in una botola.
Esterno/Cortile abbazzia
Arriva Bernardo Gui.
Interno/Biblioteca
Adso con astuzia sfila dall'abito un canapo e così i due riescono ad uscire dalla biblioteca.
Interno/Stalla
Salvatore con un gallo e un gatto nero compie un rito satanico. Vicino a lui la ragazza amata da Adso prende il gallo e cerca di fuggire dalle lussuriose voglie del monaco. Cade un lume che incendia la stalla. Arrivano gli altri frati e trovano i due, per Bernardo Gui non ci sono dubbi: questo è opera del demonio.
Interno/Cella
Adso è turbato e chiede chiarimenti al maestro sul suo passato di inquisitore. Guglielmo confessa di aver preso parte ad alcuni processi, quando “l'Inquisizione voleva guidare e non punire” ma poi, dopo che ha assolto un uomo, è stato accusato di eresia. Condannato anche dal Papa è stato incarcerato e torturato fino a che non ha ritrattato.
Interno/Abazia
Salvatore sta per essere torturato, Gui chiede una confessione.
Quarto giorno
Esterno/Alba
Arrivano i delegati papali per discutere con i francescani.
Interno/Sala Abbazia
Michele da Cesena introduce il dibattito con il delegato papale.
Trasposto dal libro al film è l’anticlericalismo ironico che pone in battaglia dottrinale i francescani contro i benedettini: Annaud sembra voler inclinare la simpatia dello spettatore verso i primi, ai quali affida il ruolo dei “buoni” e fa interpretare ai secondi quello degli intransigenti e perversi nemici della ragione. Se i francescani sono asciutti, sobri, morigerati e tolleranti, i benedettini sono opulenti, talora deformi, superstiziosi e integralisti.
Esterno/Sala
Severino si avvicina ad una finestra dellla sala e avverte Guglielmo di aver trovato il libro, qualcuno spia il dialogo.
Interno/Sala
Il delegato papale pone un quesito: i francescani vogliono che il Papa e la chiesa rinuncino alle loro ricchezze. Il Papa è contrario, la ricchezza serve a combattere gli infedeli.
Interno/Erboristeria
Severino entra nella stanza e trova tutto in disordine, qualcuno ha frugato tra le sue cose; viene ucciso da un monaco che porta via un libro.
Interno/Granaio
Malachia cerca Remigio: Salvatore ha confessato il passato di eretico, per evitare il rogo al frate non resta altro che fuggire. Remigio scappa via e Malachia si pulisce una macchia di sangue dalla scarpa: è lui ad aver ucciso Severino.
Esterno/Abbazia
Remigio viene arrestato.
Interno/Sala
La discussione tra i francescani e i delegati papali si fa accesa, ma l'ingresso in scena di Gui interrompe il dibattito: nell'abbazia sono avvenuti altri terribili fatti luttuosi.
Arrivano i delegati papali per discutere con i francescani.
Interno/Sala Abbazia
Michele da Cesena introduce il dibattito con il delegato papale.
Trasposto dal libro al film è l’anticlericalismo ironico che pone in battaglia dottrinale i francescani contro i benedettini: Annaud sembra voler inclinare la simpatia dello spettatore verso i primi, ai quali affida il ruolo dei “buoni” e fa interpretare ai secondi quello degli intransigenti e perversi nemici della ragione. Se i francescani sono asciutti, sobri, morigerati e tolleranti, i benedettini sono opulenti, talora deformi, superstiziosi e integralisti.
Esterno/Sala
Severino si avvicina ad una finestra dellla sala e avverte Guglielmo di aver trovato il libro, qualcuno spia il dialogo.
Interno/Sala
Il delegato papale pone un quesito: i francescani vogliono che il Papa e la chiesa rinuncino alle loro ricchezze. Il Papa è contrario, la ricchezza serve a combattere gli infedeli.
Interno/Erboristeria
Severino entra nella stanza e trova tutto in disordine, qualcuno ha frugato tra le sue cose; viene ucciso da un monaco che porta via un libro.
Interno/Granaio
Malachia cerca Remigio: Salvatore ha confessato il passato di eretico, per evitare il rogo al frate non resta altro che fuggire. Remigio scappa via e Malachia si pulisce una macchia di sangue dalla scarpa: è lui ad aver ucciso Severino.
Esterno/Abbazia
Remigio viene arrestato.
Interno/Sala
La discussione tra i francescani e i delegati papali si fa accesa, ma l'ingresso in scena di Gui interrompe il dibattito: nell'abbazia sono avvenuti altri terribili fatti luttuosi.
Esterno/Cortile
Viene mostrato il corpo senza vita di Severino e l'accusa cade su Remigio che professa la sua innocenza.
Interno/Sala
Ha inizio il processo e Gui sceglie Guglielmo come uno degli inquisitori. Entrano i prigionieri incatenati. Remigio confessa i peccati della carne e il suo passato di dolciniano.
Interno/Chiesa
Adso prega per la salvezza della donna amata.
Interno/Sala
Gui emette il verdetto: Salvatore, Remigio e la ragazza sono colpevoli. L'abate condivide il verdetto, lo stesso fa Guglielmo, ma con un distinguo: ammette la colpevolezza di Remigio per il suo passato ma non per gli attuali avvenimenti. Il frate non sa leggere il greco e solo chi conosce questa lingua è implicato nell'omicidio. Alle parole accorate e razionali pronunciate dal frate (sottolineate dal regista con l'unico primissimo piano di tutto il film) fa riscontro la rassegnazione di Remigio che per non essere torturato confessa tutte le colpe che non ha commesso. L'ira di Gui si scatena su Baskerville: ha osato difendere un eretico, per questo dovrà recarsi dal Papa ad Avignone. Guglielmo lascia la sala scortato dalle guardie.
Esterno/Cortile Abbazia
Mentre si comincia a preparare il rogo, i delegati papali se ne vanno.
Interno/Chiesa
Durante la funzione Malachia cade a terra e muore. Anche lui ha le mani e la lingua nera. Approfittando della confusione Guglielmo e Adso si dileguano. Gui accusa Guglielmo dell'omicidio.
Interno/Biblioteca
Mentre corrono in biblioteca Guglielmo e il novizio scoprono come aprire lo specchio che nasconde il passaggio segreto.
Esterno/Cortile abbazia
Cominciano i preparativi per l'esecuzione.
Interno/Biblioteca
Guglielmo e Adso aprono lo specchio, all'interno un'altra stanza con dei libri: ad attenderli Jorge; si svela il mistero del libro incriminato, è la Poetica di Aristotele.
Esterno/Cortile Abbazia
I prigionieri vengono condotti al rogo.
Interno/Biblioteca
Jorge cerca di colpire Guglielmo e di rinchiuderlo nella stanza segreta. Baskerville e Adso riescono a fuggire.
Esterno/Cortile
I prigionieri sono ora arrivati al rogo.
Interno/Biblioteca
Guglielmo chiede spiegazioni a Jorge.
Esterno/Rogo
Remigio e Salvatore non rinunciano al demonio.
Interno/Biblioteca
Continua il dialogo tra Jorge e Guglielmo. Da Burgos chiarisce la sua opposizione oscurantista verso il riso che uccide la paura e “senza paura non c'è Dio”. Poi mangia le pagine del libro e scaglia il lume verso Guglielmo, che nel frattempo lo ha raggiunto.
Esterno/Rogo
Comincia ad essere appiccato il fuoco al rogo dove è legato Salvatore. Arrivano gli abitanti del villaggio.
Interno/Biblioteca
La biblioteca brucia e Jorge getta i libri nel fuoco; poi le fiamme aggrediscono anche lui
Esterno/Rogo
Mentre Salvatore sta urlando per il fuoco, i monaci si accorgono che la biblioteca brucia e cominciano a correre verso l'edificio.
Interno/Biblioteca
Ormai circondato dalle fiamme Guglielmo ordina ad Adso di andarsene.
Esterno/Rogo
Gli abitanti del villaggio cercano di aggredire Gui e i soldati. L'inquisitore fugge.
Interno/Biblioteca
Guglielmo cerca di salvare dei libri.
Esterno/Cortile
Adso è uscito, vede fuggire Gui e cerca di fermarlo. Appena oltrepassato il cancello dell'abbazia la carrozza di Bernardo ha un incidente e si ferma. Inferociti gli abitanti del villaggio fanno precipitare il mezzo lungo una scarpata e l'inquisitore muore. La biblioteca continua a bruciare mentre Guglielmo esce salvo dall'edificio, portando con sé alcuni volumi.
Quinto giorno
Interno/Sala
Ha inizio il processo e Gui sceglie Guglielmo come uno degli inquisitori. Entrano i prigionieri incatenati. Remigio confessa i peccati della carne e il suo passato di dolciniano.
Interno/Chiesa
Adso prega per la salvezza della donna amata.
Interno/Sala
Gui emette il verdetto: Salvatore, Remigio e la ragazza sono colpevoli. L'abate condivide il verdetto, lo stesso fa Guglielmo, ma con un distinguo: ammette la colpevolezza di Remigio per il suo passato ma non per gli attuali avvenimenti. Il frate non sa leggere il greco e solo chi conosce questa lingua è implicato nell'omicidio. Alle parole accorate e razionali pronunciate dal frate (sottolineate dal regista con l'unico primissimo piano di tutto il film) fa riscontro la rassegnazione di Remigio che per non essere torturato confessa tutte le colpe che non ha commesso. L'ira di Gui si scatena su Baskerville: ha osato difendere un eretico, per questo dovrà recarsi dal Papa ad Avignone. Guglielmo lascia la sala scortato dalle guardie.
Esterno/Cortile Abbazia
Mentre si comincia a preparare il rogo, i delegati papali se ne vanno.
Interno/Chiesa
Durante la funzione Malachia cade a terra e muore. Anche lui ha le mani e la lingua nera. Approfittando della confusione Guglielmo e Adso si dileguano. Gui accusa Guglielmo dell'omicidio.
Interno/Biblioteca
Mentre corrono in biblioteca Guglielmo e il novizio scoprono come aprire lo specchio che nasconde il passaggio segreto.
Esterno/Cortile abbazia
Cominciano i preparativi per l'esecuzione.
Interno/Biblioteca
Guglielmo e Adso aprono lo specchio, all'interno un'altra stanza con dei libri: ad attenderli Jorge; si svela il mistero del libro incriminato, è la Poetica di Aristotele.
Esterno/Cortile Abbazia
I prigionieri vengono condotti al rogo.
Interno/Biblioteca
Jorge cerca di colpire Guglielmo e di rinchiuderlo nella stanza segreta. Baskerville e Adso riescono a fuggire.
Esterno/Cortile
I prigionieri sono ora arrivati al rogo.
Interno/Biblioteca
Guglielmo chiede spiegazioni a Jorge.
Esterno/Rogo
Remigio e Salvatore non rinunciano al demonio.
Interno/Biblioteca
Continua il dialogo tra Jorge e Guglielmo. Da Burgos chiarisce la sua opposizione oscurantista verso il riso che uccide la paura e “senza paura non c'è Dio”. Poi mangia le pagine del libro e scaglia il lume verso Guglielmo, che nel frattempo lo ha raggiunto.
Esterno/Rogo
Comincia ad essere appiccato il fuoco al rogo dove è legato Salvatore. Arrivano gli abitanti del villaggio.
Interno/Biblioteca
La biblioteca brucia e Jorge getta i libri nel fuoco; poi le fiamme aggrediscono anche lui
Esterno/Rogo
Mentre Salvatore sta urlando per il fuoco, i monaci si accorgono che la biblioteca brucia e cominciano a correre verso l'edificio.
Interno/Biblioteca
Ormai circondato dalle fiamme Guglielmo ordina ad Adso di andarsene.
Esterno/Rogo
Gli abitanti del villaggio cercano di aggredire Gui e i soldati. L'inquisitore fugge.
Interno/Biblioteca
Guglielmo cerca di salvare dei libri.
Esterno/Cortile
Adso è uscito, vede fuggire Gui e cerca di fermarlo. Appena oltrepassato il cancello dell'abbazia la carrozza di Bernardo ha un incidente e si ferma. Inferociti gli abitanti del villaggio fanno precipitare il mezzo lungo una scarpata e l'inquisitore muore. La biblioteca continua a bruciare mentre Guglielmo esce salvo dall'edificio, portando con sé alcuni volumi.
Quinto giorno
Esterno/Abbazzia
Gugliemo e Adso escono dall'abbazia. Lungo il tragitto incontrano la ragazza, che è riuscita a salvarsi. Una carezza, un tenero sguardo non sono sufficienti a far si che Adso si fermi, la sua scelta è compiuta: seguirà il maestro.
Il film si chiude e ci ricorda che abbiamo assistito anche ad un dibattito ideologico. Adso e Guglielmo si allontanano come viandanti del mondo e non più come testimoni di un messaggio religioso. Il finale puo’ sembrare ottimista: il futuro appartiene a Guglielmo, alla sua razionalità e al suo “illuminismo”. Il film mostra, però, come talvolta l’uomo cerca di attribuirsi il diritto alla custodia della verità e, quando non ci riesce, come ne Il nome della rosa, lascia dietro di sé cumuli di macerie, smascherare il “male” non significa essere riusciti a dominarlo.
Romanzo e film si chiudono con la stessa citazione: “Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tememus/La rosa primigenia esiste nel nome, noi possediamo soltanto i nomi”. Citazione che nel testo letterario si connota maggiormente di profonda malinconia, derivante dalla consapevolezza dei limiti della nostra conoscenza.
Note sul film
Christian Slater, con la sua faccia da ragazzo inesperto, riesce a rendere lo slancio passionale e poetico della giovinezza in un’espressione mimica smarrita e incredula, mentre Connery sveste di rado i suoi sguardi ironici e sicuri, gli stessi che lo avevano reso famoso nei panni di James Bond. La critica, soprattutto negli Stati Uniti, ha criticato la sua interpretazione e giudicato la sua espressività troppo altera e superba, bollando l’attore scozzese con il marchio di “eterno 007”. Eppure, nel 1986, il suo ruolo ne Il nome della rosa gli ha procurato il premio della British Academy come migliore attore dell’anno. Forse, in parte, il merito è stato del consulente gestuale assoldato dalla produzione per rendere più credibile la semantica del segno: Connery aveva il compito di adattare il suo fiero cipiglio all’orgoglio psichico di un sapiente intento a decifrare la realtà. I raffinati costumi, presi dalle miniature dei codici, sono stati riprodotti con perizia da Gabriella Pescucci, attenta a conferire a ciascuno l’abito adatto al proprio rango, e le impeccabili scenografie di Dante Ferretti sono state elaborate in due diverse location: una collina presso Roma e il monastero di Kloster Eberbach, presso Francoforte, in Germania, durante i lunghissimi tempi della pre-produzione, alla quale Annaud lavora sempre in modo minuzioso. Ogni manoscritto della biblioteca è stato ricostruito in laboratorio da un perito antiquario, ogni oggetto è ricostruito con cura (ad esempio la sfera armillare che uccide l’erborista Severino); persino gli animali usati, vacche, muli, maiali neri, cani, galline nane sono rinsecchiti e di aspetto randagio, come si conviene ad un’epoca di crisi alimentare ed economica.
La fotografia sontuosamente austera di Tonino Delli Colli: il buio, le zone d’ombra e il senso di oppressione dominante intendono comunicare allo spettatore non solo l’ansia ed il crescendo emotivo della vicenda, ma soprattutto l’idea che davvero il medioevo fosse una lunga età di oscurantismo, dominato dalla rigidità della religione, imposta all’uomo al duro prezzo della soppressione della libertà e degli istinti.
Note al testo
1) Pare che questa sia la frase di commento del presidente Wilson per il film Nascita di una nazione di D. W. Griffith.
2) Peppino Ortoleva, Scene dal passato, Torino, Loescher, 1991, pag. 7.
3) Pierre Sorlin, La storia nei film, Firenze, La Nuova Italia, pag. 21
4) Peppino Ortoleva, Ibidem, pag. 192/193.
5) Renato Giovannoli, Saggi su Il nome della rosa, Bompiani, 1999, pag. 3/5
Jean-Jacques Annaud, cenni biografici
Gugliemo e Adso escono dall'abbazia. Lungo il tragitto incontrano la ragazza, che è riuscita a salvarsi. Una carezza, un tenero sguardo non sono sufficienti a far si che Adso si fermi, la sua scelta è compiuta: seguirà il maestro.
Il film si chiude e ci ricorda che abbiamo assistito anche ad un dibattito ideologico. Adso e Guglielmo si allontanano come viandanti del mondo e non più come testimoni di un messaggio religioso. Il finale puo’ sembrare ottimista: il futuro appartiene a Guglielmo, alla sua razionalità e al suo “illuminismo”. Il film mostra, però, come talvolta l’uomo cerca di attribuirsi il diritto alla custodia della verità e, quando non ci riesce, come ne Il nome della rosa, lascia dietro di sé cumuli di macerie, smascherare il “male” non significa essere riusciti a dominarlo.
Romanzo e film si chiudono con la stessa citazione: “Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tememus/La rosa primigenia esiste nel nome, noi possediamo soltanto i nomi”. Citazione che nel testo letterario si connota maggiormente di profonda malinconia, derivante dalla consapevolezza dei limiti della nostra conoscenza.
Note sul film
Christian Slater, con la sua faccia da ragazzo inesperto, riesce a rendere lo slancio passionale e poetico della giovinezza in un’espressione mimica smarrita e incredula, mentre Connery sveste di rado i suoi sguardi ironici e sicuri, gli stessi che lo avevano reso famoso nei panni di James Bond. La critica, soprattutto negli Stati Uniti, ha criticato la sua interpretazione e giudicato la sua espressività troppo altera e superba, bollando l’attore scozzese con il marchio di “eterno 007”. Eppure, nel 1986, il suo ruolo ne Il nome della rosa gli ha procurato il premio della British Academy come migliore attore dell’anno. Forse, in parte, il merito è stato del consulente gestuale assoldato dalla produzione per rendere più credibile la semantica del segno: Connery aveva il compito di adattare il suo fiero cipiglio all’orgoglio psichico di un sapiente intento a decifrare la realtà. I raffinati costumi, presi dalle miniature dei codici, sono stati riprodotti con perizia da Gabriella Pescucci, attenta a conferire a ciascuno l’abito adatto al proprio rango, e le impeccabili scenografie di Dante Ferretti sono state elaborate in due diverse location: una collina presso Roma e il monastero di Kloster Eberbach, presso Francoforte, in Germania, durante i lunghissimi tempi della pre-produzione, alla quale Annaud lavora sempre in modo minuzioso. Ogni manoscritto della biblioteca è stato ricostruito in laboratorio da un perito antiquario, ogni oggetto è ricostruito con cura (ad esempio la sfera armillare che uccide l’erborista Severino); persino gli animali usati, vacche, muli, maiali neri, cani, galline nane sono rinsecchiti e di aspetto randagio, come si conviene ad un’epoca di crisi alimentare ed economica.
La fotografia sontuosamente austera di Tonino Delli Colli: il buio, le zone d’ombra e il senso di oppressione dominante intendono comunicare allo spettatore non solo l’ansia ed il crescendo emotivo della vicenda, ma soprattutto l’idea che davvero il medioevo fosse una lunga età di oscurantismo, dominato dalla rigidità della religione, imposta all’uomo al duro prezzo della soppressione della libertà e degli istinti.
Note al testo
1) Pare che questa sia la frase di commento del presidente Wilson per il film Nascita di una nazione di D. W. Griffith.
2) Peppino Ortoleva, Scene dal passato, Torino, Loescher, 1991, pag. 7.
3) Pierre Sorlin, La storia nei film, Firenze, La Nuova Italia, pag. 21
4) Peppino Ortoleva, Ibidem, pag. 192/193.
5) Renato Giovannoli, Saggi su Il nome della rosa, Bompiani, 1999, pag. 3/5
Jean-Jacques Annaud, cenni biografici
Jean-Jacques Annaud nasce in Francia nel 1943 e inizia la sua carriera dirigendo centinaia di spot pubblicitari per la televisione tra la fine degli anni Sessanta e inizio degli anni Settanta. Il suo esordio nel cinema risale al 1976 con Bianco e nero a colori che vince l’Oscar come miglior film straniero. E’ questo un cinico apologo, brillante e originale, sul colonialismo europeo in Africa. La sua carriera prosegue con Il sostituto (1978), film ambientato nel mondo del calcio, La guerra del fuoco (1981) strano film antropologico girato in mezzo mondo e vincitore di un Oscar per il miglior trucco. Nel 1986 il regista porta sullo schermo il best seller di Umberto Eco Il nome della rosa: il film è uno straordinario successo anche grazie alla bravura di Sean Connery. Due anni dopo è la volta de L’orso (1988), film naturalista di marcato stampo disneyano, caratterizzato dalla quasi assenza di attori e oggetto di critiche a causa delle numerose inesattezze riscontrate da animalisti e ambientalisti. Nel 1991 è la volta di un’altra trasposizione da romanzo, L’amante da Marguerite Duras. Il successivo Wings of Courage (1995) è invece girato in formato imax, una particolare tecnologia presente in apposite sale cinematografiche che permette, letteralmente, di avvolgere lo spettatore. Amante delle storie ad ampio respiro, possibilmente girate in condizioni difficili, realizza Sette anni in Tibet (1999) - dove le montagne asiatiche sono invece in Argentina - che ha un discreto successo al botteghino, grazie anche all’interpretazione della star Brad Pitt. Nel 2001 gira Il nemico alle porte, tratto dal romanzo di William Craig, che racconta la vera storia di un cecchino russo, Vassili Zaitsev, impegnato nella battaglia di Stalingrado durante la seconda guerra mondiale. Il suo ultimo film è Due fratelli, realizzato nel 2003.
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