mercoledì 23 settembre 2009

LEGGI LA CRITICA DI TULLIO KEZICH

Può darsi che qualche raffinato cultore dell’arte pura tenti di confinare il cinema di Rosi dentro i limiti dell’oratoria. Si tratta, comunque, di un’oratoria nutrita di dolore e di sangue, animata dal furore represso del Mezzogiorno che il “boom” può anestetizzare provvisoriamente senza avviare a nessuna soluzione concreta. Questa volta il regista napoletano ci racconta un’altra storia proibita dell’Italia che ancora attende il compimento delle promesse risorgimentali. È di scena la speculazione edilizia in una grande città del Sud: in un quartiere popolare crolla una vecchia casa, alcune persone perdono la vita; la responsabilità sembrerebbe ricadere sull’impresa che sta elevando nei pressi una costruzione nuovissima. Il comune apre un’inchiesta, si scoprono grosse prevaricazioni, connivenze allarmanti, ma una truffaldina parvenza di legalità impedisce che i fatti più gravi siano portati alla luce. Tutto finisce in una bolla di sapone: anzi il più bersagliato degli speculatori, grazie a una nuova alleanza politica, diventa addirittura assessore comunale. Anche se strati sempre più larghi della popolazione stanno arrivando lentamente alla consapevolezza dei propri diritti, l’assalto alla città continua e segna un nuovo trionfo. Le mani sulla città è un film politico che rifiuta qualsiasi ricorso a soluzioni romanzesche e spettacolari. C’è il problema e ci sono gli uomini che ne rappresentano i vari aspetti; non c’è nessuna ricerca nella direzione della psicologia individuale, benché certe osservazioni lascino il segno. Con maggiore chiarezza che in Salvatore Giuliano, Rosi espone i fatti e non nasconde il giudizio: la separazione della politica dalla morale, di machiavellica memoria, è fonte di calamità civili; il trasformismo, con le sue alleanze ciniche e i suoi voltafaccia improvvisi, è la vera piaga del Sud, cioè dell’Italia. Questo è un esempio di cinema moderno e rigoroso, che si rivolge a un pubblico adulto e ha l’ambizione di risvegliare le coscienze. Non c’è nessuna semplificazione eccessiva, nessun ottimismo programmatico, nessuna velleità polemica fine a se stessa. Solo il discorso intransigente e incisivo di un artista che vuoi vedere chiaro nelle piaghe della nostra società. L’eredità del neorealismo non poteva essere raccolta meglio. Rosi è davvero il migliore degli allievi di Visconti e sta superando il suo maestro.
Tullio Kezich, Il cinema degli anni sessanta, 1962-1967, Edizioni Il Formichiere

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