giovedì 24 settembre 2009

PSYCHO

Un film di Alfred Hitchcock
Soggetto: dal romanzo omonimo di Robert Bloch
Sceggiatura: Joseph Stefano
Fotografia: John L. Russell
Effetti speciali fotografici: Clarence Champagne
Scenografia: Joseph Hurely, Robert Claworthy e George Milo
Musiche: Bernard Herrmann
Suono: Walden Watson e William Russell
Titoli: Saul Bass
Montaggio: George Tomasini
Costumi: Helen Colvig
Interpreti: Anthony Perkins (Norman Bates), Janet Leigh (Maríon Crane), Vera Miles (Lila Crane sorella di Marion), John Gavin (Sam Loomis), Martin Balsam (Milton Arbogast, il detective) John McIntire (Chambers, lo sceríffo), Simon Oakland (dottor Ríchmond), Frank Albertson (il milionario), Pat Hitchcock (Caroline, la collega di Marion), Vaughn Taylor, Lurene Tuttle, John Anderson, Mort Mills.
Produzione: Paramount
Origine: USA
Anno di edizione: 1960
Durata: 109’

Sinossi
A Phoenix (Arizona) Marion Crane e il suo “fidanzato” Sam Loomis hanno fatto all'amore nell'intervallo del pranzo. Non possono sposarsi perché non possiedono abbastanza soldi per sostenere una vita in due e soprattutto l'uomo non ha il denaro per divorziare dalla moglie. Ma, tornata nell'ufficio, dove lavora come segretaria, Marion riceve l'incarico di versare in banca quarantamila dollari. La donna se ne impossessa, e contando sui due giorni di week-end che dovrebbero funzionare da “copertura”, parte per San Francisco, dove Sam ha un negozio di ferramenta. Un colpo di sonno la fa fermare lungo la strada. Sarà svegliata da un poliziotto. Decide, così, di cambiare auto: i suoi movimenti sono seguiti dall'agente che, però, ben presto, abbandona il pedinamento. Cala la notte e la pioggia: Marion vede l'insegna dei “Bates Motel” e vi si dirige. Dalla lugubre casa vittoriana scende un giovanotto, Norman Bates, il proprietario, che le assegna una stanza. Dal suo alloggio Marion sente i rimproveri della madre di Norman. Poco dopo, nel bureau, mentre sta consumando un leggero spuntino, Marion capisce che Bates è tiranneggiato dalla vecchia madre dispotica. Durante il colloquio, comunque, prende la decisione di tornare a Phoenix. Norman la spia mentre si spoglia. Sotto la doccia Marion Crane viene uccisa a coltellate dalla signora Bates. Norman non può che far sparire le tracce dell'omicidio, gettando l'automobile e il corpo della vittima nella vicina palude. Lila, la sorella di Marion, è a San Francisco per chiedere notizie a Sam. Qui, nel negozio di ferramenta, vengono raggiunti dal detective Arbogast incaricato di ritrovare Marion e i quarantamila dollari. L'investigatore privato, durante le sue ricerche, giunge al motel. Insospettito dal Comportamento di Norman telefona a Sam i suoi dubbi e poi torna indietro. Penetrato nell'abitazione viene assalito e assassinato dalla Bates. Norman s'incarica, ancora una volta, di nascondere il cadavere e la macchina nella palude. Sam e Lila si recano dallo sceriffo, il quale rivela loro che la signora Bates è morta da molti anni. Vanno, allora, al motel. Mentre Sam tiene occupato Norman, Lila entra nella casa. Presto Bates s'accorge della trappola e colpisce Sam alla testa. Lila, per nascondersi, finisce in cantina e qui trova lo scheletro impagliato della signora Bates. Nello stesso istante, Norman, travestito da donna, cerca di assalirla. Ma Sam, riavutosi, lo ferma. Alla stazione di polizia uno psichiatra spiega le ragioni della doppia identità: Norman ha ucciso sia la madre sia il patrigno, poi il complesso di colpa lo ha completamente reso pazzo. Il transfert di personalità e il rapporto morboso con la vittima facevano sì che “l'altro” Norman impedisse a chiunque di turbare la sua “normalità”. Norman Bates è, ormai, “diventato” sua madre e, imitandone la voce, rimprovera a se stesso gli omicidi.

ANALISI DEL FILM

1) Marion Crane e Sam Loomis nell'albergo a Phoenix
Psycho è il “limite” della finzione secondo Alfred Hitchcock: la sublimazione irripetibile dell'horror nella “purezza” dei pensiero visivo. Film della umbratilità e della “notte dello spirito”, Psyco forma un triangolo di ossessioni, Marion-Norman-(la Madre), dove l'ambiguità del doppio sentimento esistenziale (innocenza e colpevolezza) provoca lo spaventoso allestimento della tragedia dell'identità, ovvero il trionfo della morte. Il teschio che, in sovraimpressione, appare sul volto sorridente di Norman, nel penultimo fotogramma, è la tremenda mediazione del transfert mamma-figlio, è la spietata iconografia del “nulla”. L'immagine dello scheletro si dissolve su quella emergente della macchina “rubata” al lugubre cimitero dello stagno: ancora un simbolo macabro (una prova che “tutto” non è stato solamente un incubo da emicrania) per chiudere il tuffo nella melma di una realtà alienata e assassina. Il pensiero visivo è la filosofia della concretizzazione dello sguardo, la dimostrazione del potere (rappresentativo e riflessivo) dell'occhio/cinema. La macchina da presa cattura, così, la sua storia nella tranquilla normalità di un pomeriggio di dicembre (ore 14,43) a Phoenix, Arizona: una panoramica di “piani” sui palazzi fino alla facciata di mattoni, dove una finestra socchiusa si lascia penetrare, attraverso gli avvolgibili. Una coppia (lei sdraiata sul letto in enorme reggiseno bianco, lui, in piedi, a torso nudo) ha appena fatto all'amore, nell'intervallo del pranzo.
Ognuno di noi - confessa Norman Bates - è stretto nella propria trappola, avvinghiato, e non riesce mai a liberarsene ... e mordiamo e graffiamo, ma solo l'aria, solo il nostro vicino e, con tutti i nostri sforzi, non ci spostiamo di un millimetro... Nella mia trappola, io ci sono nato e non me ne importa più niente, ormai ... ” “Non ho iniziato a farlo - dichiara Hitchcock a proposito di Psycho - con l'idea di girare un film importante. Ho pensato che potevo divertirmi facendo un'esperienza. li film è costato solo 800.000 dollari e l'esperienza consisteva nel domandarsi se era possibile ottenere un vero film nelle condizioni di un film per la televisione. Mi sono servito di una équipe televisiva per girare molto rapidamente. Ho rallentato soltanto per girare la scena dell'omicidio sotto la doccia (ben sette giorni e settanta posizioni di macchina per quarantacinque secondi di film, n.da.), la scena della pulizia e un paio d'altre che segnavano lo scorrere dei tempo. Tutto il resto è stato girato come se fosse stato per la televisione... E' il mio film di maggiore successo. Beninteso non ha tutti i critici dalla sua parte, perché i critici non si interessano che al soggetto. Bisogna progettare i film come Shakespeare costruiva le sue commedie: per il pubblico.” Dice Bernard Herrmann. “Ricordo che eravamo in sala di proiezione dopo aver visto il montaggio provvisorio di Psycho. Hitch camminava nervosamente avanti e indietro dicendo che il film era orribile e che l'avrebbe montato per la televisione. Sembrava impazzito, non sapeva cosa aveva in mano. Aspetta un momento - gli dissi - ho delle idee. Cosa ne pensi di una musica solo per archi? o una volta suonavo il violino... Hitch era fuori di sé. Aveva prodotto il film con i suoi soldi e aveva paura di fare fiasco. Non voleva nemmeno la musica nella scena della doccia!”. Ecco dunque tre stadi diversi dello stesso film, tre diversi punti d'approccio a un'opera che è particolarmente difficile misurare prescindendo dall'impressionante cumulo di informazioni, valutazioni, interpretazioni che l'hanno "mummificata" nella condizione dei capolavoro. Cosa ci resta della sorpresa per la morte della star - la sola - di Psycho a meno della metà della storia? Come possiamo andare con lei sotto la doccia senza immaginare l'orrendo seguito di quel gesto quotidiano e senza pericoli? Il disagio che diventa paura di fronte alla follia che si insinua nella nostra vita, è diventato realtà da Psycho in avanti. Il serial killer moderno esiste a partire da Norman Bates e M, il mostro di Dusseldorf, ne è solo un cosciente anticipatore. Ma questo piccolo film in bianco e nero, ennesima scommessa produttiva e artistica in una carriera che, in quel momento, non conosce ancora le incertezze della vecchiaia, è rivoluzionario soprattutto per due aspetti: accetta il rischio del finale non consolatorio e svela un nuovo tabù nell'inconscio dell'autore (e quindi dei pubblico): quello della madre. I più affilati strumenti della psicanalisi si sono spuntati di fronte a questa storia che ha l'esemplarità del caso clinico, ma che non si limita a "rappresentare" poiché ci porta all'interno della follia. Hitchcock scende nella cantina più segreta del suo inconscio e ne riemerge, trionfante, con un nuovo codice interpretativo da illustrare: dopo il "doppio", dopo la sessualità, dopo il complesso di colpa e il tema dell'innocenza presa in trappola, il regista sente che il nuovo punto di vista - la rimozione della figura materna - è destinato a spiazzare la nostra attenzione e a sconvolgere equilibri profondi. Adatta quindi la sua storia a questa idea dello sconvolgimento, della sorpresa costante e gioca la carta della perdita di ogni sicurezza. Il patto di complicità con lo spettatore (l'identificazione con l'eroe) viene rotto a vantaggio della paura allo stato puro. Psycho ci dice due cose sulla paura, fino ad allora impensabili: che essa diventa angoscia animale quando nessun elemento esterno è destinato a rassicurarci, e che il terrore non viene dalla rappresentazione della violenza, ma dalla sua snervante attesa. Psyco è una continua alterazione del punto di vista consueto: gli oggetti d'ogni giorno diventano nemici, le figure parentali più rassicuranti portano la morte, gli eroi vengono uccisi o si trasformano in mostri, l'attesa dell'orrore ne moltiplica l'urgenza e la repulsione si cangia in morbosa complicità. Per quaranta lunghissimi minuti, seguiamo vicende di furti e di rimorsi (Hitchcock chiama questa storia una “aringa rossa”, una “red herring” qualcosa che distoglie l'attenzione allo scopo di moltiplicare lo sconcerto successivo). Arriviamo poi, senza preavviso, a un climax irripetibile con una violenza inaudita e totalmente astratta (nessuna esibizione delle ferite del coltello; nessuna traccia del colore del sangue, annegato dal contrasto simbolico dei bianchi e dei neri nella stanza da bagno; perdita traumatica della protagonista e incertezza assoluta, da quel momento in avanti, su chi sopravviverà e chi cadrà sotto i colpi dell'inafferrabile assassino). Da quel momento in avanti la storia può crescere d'emozione solo in base al ricordo della violenza più immaginata che vista e per ciò stesso più terrorizzante; nella consueta scala delle emozioni siamo passati dal furto all'omicidio e la sua successiva serialità costituisce, ogni volta, un passo in più verso il disagio che è causato dalla follia. “Unheimlich”, diceva Fritz Lang, per sottolineare la fonte dell'angoscia. Straniante e imprevisto, ripete con lui Hitchcock davanti alle gesta di Norman Bates, progenitore esplicito (i due personaggi sono ritagliati sullo stesso serial killer Edward Gein) di Hannibal Lecter.

2) Ufficio agenzia immobiliare: il milionario Cassidy e signor Lourie. Marion esce con i soldi

3) Appartamento Marion. Marion si prepara per la fuga

4) In auto Marion in fuga si incontra con il signor Lourie

Da una situazione di banale trasgressione, alla tentazione di quarantamila dollari. Il prologo di baci, abbracci, discussioni e promesse di futuro meno incerto è travolto dalla prima incursione nel “torbido”, il furto. La necessità dei cambiamento di “visuale”, spinge Psycho alla soglia dei labirinto hitchcockchiano: il melodramma ha assunto i toni di un “mistery” che presto si rivelerà come un altro, beffardo McGuffin. Marion ruba per ottenere la libertà (del divorzio) di Sam, ma, nello stesso istante, è lei che cessa di essere libera. Ora è schiava della propria “macchinazione” e il brevissimo incontro, in strada, con il principale, sancisce la conclusione dello “understatement”: non ci saranno più tenui variazioni di racconto, ma esclusivamente gli agguati paurosi della suspense e dei terrore.

5) Strade viaggio notturno

6) Si addormenta e viene svegliata dal poliziotto sospettoso

7) Viene seguita dal poliziotto che poi, improvvisamente, devia

8) Autoconcessionaria. Marion vuol cambiare la macchina. Sopraggiunge il poliziotto

9) Marion ancora in viaggio, pioggia Arrivo al motel Bates

Il secondo movimento del film aggredisce il viaggio, propone, in rapide dissolvenze (tutte sugli occhi di Marion), l'entrata nelle tenebre. Il sonno della donna ha il brusco risveglio di un fondale nero: gli occhiali inquisitori del poliziotto. Poi il panico, il cambio d'auto, il buio, la pioggia e, come se il sogno proseguisse, il motel (e la sua insegna - bianca, onirica -) si materializza.

10) Norman Bates nella reception con Marion

11) Marion in camera nasconde i soldi e sente le voci provenire dalla casa

Ma il luogo della fascinazione sorge accanto alla vecchia, ordinata fila di camere: è il lugubre edificio, sulla collinetta, dove la rottura violenta di una famiglia (il matricidio e l'eliminazione di un estraneo, il patrigno) ha suscitato un processo di irreversibile dannazione. L'ombra che Marion intravvede a una finestra è, ormai, il nuovo ego di Norman, la sua duplicazione-travestimento nel corpo fittizio di chi ha ucciso. Il ragazzo timido e premuroso che, di corsa, scende le scale sotto l'acqua, esiste unicamente in brevissimi ritagli di eguale schizofrenia, perché, nella completa affermazione deii'irrazionale e nel rifiuto della colpa, il figlio non accetta il delitto.

12) Bates porta la cena a Marion

13) In ufficio. Cenano. Bates parla del suo hobbie di impagliare gli uccelli, del rapporto con la madre

14) Bates spia dall'ufficio Marion nella sua camera

Psycho è uno straordinario esempio di come i meccanismi di identificazione che smuovono lo spettatore di un film narrativo non si limitino al rapporto fra questi e il soggetto eroe/protagonista della storia, bensì possano concernere una relazione multipla con diversi personaggi. In sostanza, ben raramente, guardando un film, io spettatore mi identifico con un solo agente narrativo, ma tendo a farlo - se questa è la intentio operis - con diversi esistenti in diversi momenti del racconto. Mobile, come una foglia al vento, volubile, come un uomo che non sa amare, lo spettatore volentieri tradisce i suoi eroi, preferendo ad un'unica grande passione, tante piccole infatuazioni quante il testo finisce col generare in lui. Quel che è "peggio' è che in questa successione, ma anche sovrapposizione, di diverse identificazioni, io posso stare tanto dalla parte dell'eroe quanto in quella del suo antagonista. Visto da un'altra prospettiva, questo rapporto contraddittorio con gli agenti del testo è anche un modo attraverso cui l'opera estende i miei orizzonti, spingendomi ad abbracciare non uno, ma diversi punti di vista, non una, ma tante ragioni. Il tutto ovviamente conduce alle facoltà manipolatorie del racconto e alla sua istanza narrante, ai processi di localizzazione e di ocularizzazione, ai rapporti fra credere, sapere e vedere: io sto dalla parte di qualcuno anche perché un racconto mi mostra e fa sentire di questo qualcuno determinate verità o apparenze di verità. Psycho è, a riguardo, un racconto esemplare proprio per il modo in cui esso moltiplica la storia che narra in una serie di diverse storie che sono, almeno, quelle del furto di Marion, dell'omicidio della donna da parte di Norman, del mistero della madre, della doppia indagine che viene condotta prima da Arbogast e poi da Lila, insieme a Sam. Inizialmente il film spinge lo spettatore a identificarsi con Marion, poi, senza che questo legame venga meno, con Norman, che nella realtà è il suo assassino; dopo la morte di Marion, i legami di identificazione con Norman permangono, ma a essi si sovrappongono quelli con Arbogast, Lila e Sam il cui oggetto valore è antitetico a quello perseguito dallo stesso Norman. Ma come Psycbo costruisce questi rapporti? Quali sono i modi dell'identificazione a cui il film dà vita? A una prima analisi, e per il momento anche ultima, ci sembra di poter definire tre diversi modi d'identificazione: linguistico, narrativo e affettivo. Ognuno di essi può intrecciarsi agli altri e concerne sempre più personaggi. Vediamo innanzitutto l'identificazione costruita attraverso il dispositivo linguistico. Siamo di fronte a quella che è probabilmente la figura di discorso più diffusa e celebrata del cinema di Hitchcock - l'alternanza di oggettive e soggettive, o, per dirla con Jost, l'ocularizzazione interna secondaria. Nessuno meglio di Hitchcock, e forse dei suo primo seguace Brian De Palma, ha saputo trarre tanti vantaggi da questo particolare dispositivo.
L'alternanza delle oggettive che ci mostrano il personaggio guardare e delle soggettive che ci mostrano ciò che questo personaggio vede è indubbiamente uno dei meccanismi che più facilitano il processo d'identificazione da parte dello spettatore. Questi si ritrova così ad essere dentro e fuori il personaggio, a vedere ciò che questi vede e poi ciò che il suo volto esprime del suo stato d'animo in rapporto a quel che il suo sguardo afferra. Lunghi segmenti di Psycbo - talvolta intere scene - sono, come ben noto, costruiti intorno a questo principio discorsivo. E' interessante notare come questi ampi segmenti siano esclusivamente legati alle due protagoniste del film, Marion e Lila. Per Marion possiamo fare riferimento almeno alla scena in cui, nel suo piccolo appartamento, decide di rubare i quarantamila dollari e poi alla seconda parte della scena dell'inseguimento del poliziotto; per Lila pensiamo invece al momento in cui si avvicina al villino dietro al motel e a quando si trova nella stanza della madre di Norman e in quella dello stesso Norman. Questi cinque segmenti del film sono tutti segnati con evidenza da una marcata alternanza di oggettive e soggettive che si estende temporalmente, quantitativamente e drammaticamente, ben oltre i confini tradizionalmente segnati dal cinema classico. Il fatto che solo Marion e Lila, le due donne del film godano di questa sorta di privilegio, ci spinge a due brevi considerazioni. Innanzitutto il parallelo rafforza l'idea che Lila sia in qualche modo leggibile come una reincarnazione di Marion, come colei che prosegue l'avventura della protagonista vivendone sì gli stessi pericoli, ma riuscendo nel contempo a vendicarla nelle forme della "scoperta' della verità e della "punizione del colpevole" - non dimentichiamo del resto che la presentazione di Lila segue, nell'intreccio, la scena della definitiva scomparsa di Marion, all'interno della macchina che affonda nello stagno paludoso; via l'una, dentro l'altra -. Nel contempo il fatto che siano le due donne del film ad essere le principali portatrici di uno sguardo proprio, affermato attraverso l'uso ripetuto e prolungato delle soggettive, dovrebbe farci vedere in Psyco un film che oltrepassa i confini del cinema classico, se per cinema classico intendiamo - con Laura Mulvey - quel cinema in cui la funzione della donna è semplicemente quella di un'icona, di una figura passiva che soggiace allo sguardo maschile. In Psycho gli sguardi forti sono, soprattutto, quelli femminili. Nonostante questo, il principio dell'ocularizzazione interna secondaria non è in Piycho affidato alle sole protagoniste. Anche Norman e Arbogast - al contrario di Sam che ne è sostanzialmente escluso - possono goderne, sebbene in forme assai più ridotte. Nel caso di Norman la riduzione è più quantitativa che qualitativa. E' soprattutto in due momenti del film, più brevi di quelli concessi allo sguardo delle due donne, ma non meno intensi sul piano drammatico, che lo sguardo di Norman diviene quello dello spettatore. Ciò accade una prima volta quando Norman spia Marion che si sveste nella sua stanza. La brevità del segmento è compensata dal processo di enfatizzazione determinato dall'uso di un movimento di macchina in avanti verso l'occhio di Norman che arriva quasi a un particolare. E' una delle scene più esplicitamente voyeuristiche di tutto il cinema di Hitchcock. è, il primo vero momento del film in cui la dominante scopica, sino a quel momento a tutto appannaggio di Marion, passa ad un altro personaggio. Si preannuncia così una svolta narrativa chiave, quella che porterà alla sostituzione del personaggio principale della storia: da Marion, la vittima, a Norman, il suo assassino. Del resto sarà proprio un altro occhio mostrato in  dettaglio, quello della stessa Marion, subito dopo l'omicidio, a chiudere questo sovrasegmento di transizione, quasi a volerne segnalare esplicitamente la fine dopo che tanto esplicitamente se ne era segnato l'inizio. Tuttavia il particolare dell'occhio di Norman e le sue soggettive non segnano semplicemente l'avviarsi di una successione fra un primo e un secondo rapporto di identificazione dello spettatore, ma sono anche causa e segno di una sovrapposizione di identificazioni: lo spettatore non ha ancora avuto motivo di abbandonare Marion che già si ritrova nei panni di Norman. Vittime e nello stesso tempo assassini, ci ritroviamo in una situazione scopica, ma in realtà già affettiva, che è strettamente connessa alla duplicità di entrambi i personaggi in gioco, scissi in un inestricabile intreccio che li vuole tanto innocenti, quanto colpevoli (in fin dei conti l'una ruba 'a causa" di Sam e l'altro uccide 'per colpa" della madre). Un ultimo aspetto di rilievo, a riguardo di queste prime esplicite soggettive di Norman, è che esse confermano il crudele gioco hitchcockiano che spinge lo spettatore a identificarsi col male - in questo caso un assassino - e riconoscere così in sé la presenza di questo stesso male. Poco importa che qui ancora non si sappia che Norman è l'assassino. Noi ci identifichiamo otticamente con lui nel momento in cui spia di nascosto una donna spogliarsi - atteggiamento questo piuttosto riprovevole, se non altro perché viola l'intimità di qualcuno - ma non possiamo - almeno per buona parte degli spettatori maschi ed eterosessuale - non trarne piacere. E', evidente che questo sguardo maschile, gettato su un corpo femminile svestito, attenui notevolmente la portata, in qualche modo eversiva, che il film sembrava assumere quando mettevano in rilievo la centralità degli sguardi femminili.
 

15) Bates in casa

16) Marion fa i conti del denaro mancante e poi fa la doccia. Omicidio

Seguiamolo: Norman si “staglia” tra due uccelli e si avvicina al dipinto di uno stupro, lo stacca dal muro, c'è un'apertura e un buco dal quale filtra un tenue chiarore. Norman spia, in profilo, con l'occhio sinistro: Marion in reggiseno nero sta spogliandosi, solo il vano del bagno alle sue spalle è pienamente illuminato; primissimo piano dell'occhio dei giovane, Marion in vestaglia di spalle, Norman rimette a posto il quadro, si guarda attorno smarrito, esce, si dirige verso casa, entra, si ferma sotto le scale, poi, mani in tasca, raggiunge la cucina e si siede appoggiandosi al tavolo. Marion, alla piccola scrivania, sta rivedendo le cifre dei suo conto alla “First Security Bank of Phoenix”, straccia il foglietto, lo getta nel water e fa funzionare lo sciacquone. Si toglie la vestaglia, entra con i piedi nella vasca, s'infila oltre la tenda, offre il viso al getto della doccia. Primissimo piano dell'irradiazione dell'acqua; cinque piani della donna e uno dei getto della doccia. Un'ombra al di là della tenda: è una donna con il viso completamente in ombra, impugna il coltello. Due primi piani dell'urio di Marion e uno, grandissimo, della sua bocca spalancata. Due immagini della “figura” che vibra i colpi; tre inquadrature di Marion mentre la mano dell'altra la pugnala; ancora l'assalitrice, ancora dettagli dei corpo della vittima e delle smorfie di dolore della bocca che urla, un coltello raggiunge l'ombellico, si alza e si abbassa sul suo “bersaglio”. L'ultimo grido. Inquadratura dei sangue che scorre nella vasca. Marion di spalle, il sangue, l'impronta sulle piastrelle, l'assassina che fugge; primi piani di una mano; Marion di profilo, si volta, tende il braccio destro, afferra la tenda; inquadratura dall'alto: i ganci della tenda che gradatarnente cedono, Marion s'accascia, primo piano dell'“innaffiatoio” della doccia che continua a funzionare, i piedi di Marion, l'acqua che scivola verso lo scarico. Primissimi piani del “vortice” dello scarico e dell'occhio destro di Marion, dove una goccia, come una lacrima, si è fermata sotto la ciglia inferiore; il viso, la doccia, ancora il viso. Una panoramica della stanza fino al primo piano dei giornale, sul comò, accanto al letto, dove sono nascosti i dollari. La casa, e la voce fuori campo di Norman: “Madre! Oh Dio! Madre, madre! Sangue, sangue!”. L'eroina è morta quasi a metà film.
Per Psycho (1960) Hitch non avrebbe voluto musica nella sequenza della doccia. Era dubbioso sul film in sé, ma fu Herrmann ad avere fiducia nel risultato finale, per cui chiese al regista di lasciargli prima comporre la musica. Hitch consentì, ma con una riserva: -Ti chiedo solo una cosa, non scrivere nulla per l'assassinio nella doccia. Deve avvenire in silenzio”. In questo caso aveva torto, come riconobbe lui stesso a cose fatte quando la "sua" sequenza dimostrò di riuscire magistralmente "insopportabile" proprio grazie alla musica di Herrmann, che utilizzò le note più alte del "cantino" la corda più acuta del violino). Tutta la partitura, come noto, fu affidata ai soli archi. Fred Steiner, analizzandola, disse che questa scelta privava il musicista di tutte le formule collaudate e degli effetti che, fino a quel tempo, erano considerati essenziali per i film di suspense e di orrore: rullo di piatti, colpi di timpano, corni con la sordina, striduli clarinetti, sinistri tromboni, e un'altra dozzina di trucchettii sonori tipici di Hoìlywood. Nonostante questo, o proprio per questo, la musica di Psycho segna un altro vertice nella storia del rapporto fra Hitch e Hermann: la profonda angoscia suscitata da questa trappola senza uscita trova negli archi del nostro compositore - poi imitati più volte - un corrispettivo di un impatto tormentoso. Senza clire delle raffinate soluzioni contrappuntistiche e armoniche che fanno pensare qua e là a Bartok e a Berg. Rimando chi volesse seguire sequenza per sequenza la sottilissima aderenza degli interventi musicali alle analisi compiute, oltre che dal citato Steiner, dagli italiani Giuliana Landoni e Ennio Simeon

17) Bates si dirige di corsa nella camera di Marion einizia a ripulire le tracce del delitto

18) Bates mette il corpo di Marion nel bagagliaio con tutta la sua roba e spinge l'auoto nella palude

Psycho, che ha esaurito lo choc iniziale sui tentativi di Norrnan di cancellare la strage (significativi i due fotogrammi prima dello stacco sulla lettera di Marion che Sam sta scrivendo nel negozio di ferramenta: Norman sorridente inquadrato, con sul lato sinistro, due rami d'albero che ricordano gli uccelli impagliati e la calma spettrale dello stagno - dopo “l'assorbimento” della vettura - che rimanda alla “sacralità” funerea dell'abitazione della Madre), ricomincia.
L'altro momento del film costruito sul punto di vista scopico di Norman è quello in cui il giovane osserva, vicino allo stagno, la macchina col corpo di Marion sprofondare nella palude e, più precisamente, quando l'autovettura sembra per un momento arrestare la sua discesa, aprendo al racconto la possibilità che le tracce dell'omicidio di Marion non possano essere cancellate. La scena non aggiunge nulla di nuovo a quanto abbiamo appena finito di dire - successione delle identificazioni, passaggio da una relazione di prossimità con la vittima a una di prossimità con l'assassino, sadico gioco che ci spinge a stare dalla parte del male, ma ci permette di arricchire e articolare meglio una precedente osservazione. Abbiamo visto come il fdm disegnasse un sovrasegmento di transizione che si avviava col particolare dell'occhio di Norman e si chiudeva con quello dell'occhio privo di vita di Marion. Ora questa sezione del film si colloca all'interno di una parte di Psycho altrettanto facilmente delimitabile. Questa parte - che è quella di Marion nel motel - si avvia in realtà un po' prima del suo arrivo e termina un po' dopo la sua dipartita (nel senso letterale e figurato della parola). Un po' prima perché, senza soluzione di continuità, nè marche linguistico, il film passa dall'ultima parte del viaggio notturno della donna al suo arrivo vero e proprio al motel; un po' dopo perché il tutto si conclude con lo sprofondare della macchina, e del corpo della donna che essa contiene, nello stagno paludoso. Ora anche questi due momenti del film presentano fra loro diversi rimandi - secondo un gioco di 'rime' tipico del cinema classico - che 'tengono' l'intera parte. Fra essi ancora troviamo lo sguardo e la soggettiva. Se infatti questa parte si chiude con le già citate soggettive di Norman, essa si apre con quelle di Marion alla guida della sua macchina. Per entrambi i personaggi questo vedere è dapprima un vedere ciò che non vogliono vedere: la pioggia e i fari dell'auto che la abbagliano per Marion, la macchina che non ne vuole sapere di sprofondare per Norman; e poi un vedere che genera sollievo. L'insegna di un motel, l'auto che scompare.

19) Il negozio dove lavora Sam. Incontro tra Sam, Lila - sorella di Marion - e il detective  Milton Arbogast

Le “entrate” di Arbogast (“il mio nome è Arbogast, amico. Sono un investigatore privato”) e di Lila (“Si, miss?”, “Sono la sorella di Marion”, “Oh, certamente: Lila”) annunciano i tre momenti della suspense

20) Sequenza di montaggio della ricerca di Arbogast

21) Arbogast con Bates: si scopre che Marion è stata nel motel. Arbogast vede la silhouette della madre di Norman

L'altro personaggio maschile a cui il film, in almeno due casi, attribuisce delle soggettive relativamente forti è, abbiamo detto, il detective Arbogast. Il primo momento è quello del suo ingresso nel motel, in particolare quando entra nel salotto degli uccelli impagliati; il secondo è invece quello che coincide col suo arrivo nella villa e che precede di poche immagini il suo omicidio. Anche in questo caso il gioco delle soggettive stabilisce dei legami ben precisi fra i personaggi del film, così come ne istituisce dei rapporti temporali altrettanto espliciti. Nella prima delle due scene le soggettive di Arbogast rimandano al passato, dal momento che riprendono quelle che la stessa Marion gettava su quegli stessi uccelli quando, per la prima volta, entrava nel salotto. Non possiamo dire che come Lila, Arbogast sia la reincarnazione di Marion. Ma quel che invece possiamo affermare è che attraverso queste soggettive che accomunano il detective alla donna scomparsa, il film mette discorsivamente in parallelo i due personaggi - oltre che a farlo diegeticamente, la stanza è la stessa, le cose che vedono sono le stesse -, prefigurando così il destino di vittima di Arbogast che concluderà la sua avventura nel film nello stesso modo in cui l'aveva conclusa Marion.

22) Arbogast telefona a Sam e Lila e esprime i suoi dubbi su Bates
Ma il parallelo fra i due personaggi si spinge anche su un altro piano esegetico che concerne direttamente i modi affettivi dell'identificazione. Su un tale livello è evidente che la coppia di personaggi privilegiata dal film è quella formata da Marion e Norman, entrambi, come già detto colpevoli ma soprattutto vittime (dell'ingiustizia sociale e delle convenzioni, l'una, della malattia e della possessività della madre, l'altro). Molto è già stato scritto a questo proposito e non mi sembra il caso di insistervi ulteriormente. Meno battuta è invece la strada che concerne gli elementi accomunanti Marion e Arbogast. Abbiamo già visto come entrambi siano le uniche due vere e proprie vittime del film. Ma ciò che è interessante notare è come il percorso che li porta alla morte sia strutturalmente identico nel suo articolarsi su tre momenti ben precisi: peccato, redenzione, punizione. Che Marion pecchi è evidente a tutti nel momento in cui si appropria indebitamente di quarantamila dollari. A questo peccato segue il tentativo di redimersi che si attua nella sua decisione di ritornare a Phoenix e restituire il denaro rubato (decisione comunicata indirettamente a Norman e esplicitata poi dal biglietto su cui la donna sottrae ai quarantamila dollari i settecento spesi per l'acquisto dell'auto usata). A questo suo pentimento - che rafforza ulteriormente i legami di identificazione col personaggio accrescendo la simpatia che per esso già provava la spettatore - a nulla serve, dal momento che la punizione la colpisce inesorabilmente nella forma dell'omicidio-stupro da parte di Norman. Identico, anche se meno esplicito, il percorso seguito da Arbogast. Qual è il peccato originario dell'uomo? Ritorniamo alla sua presentazione, a quella sfacciata enunciazione della sua immagine propria attraverso un violento primissimo piano, al modo arrogante con cui si rapporta a Sam e Lila, ai suoi gretti sospetti sul fidanzato e in qualche modo anche sulla sorella di Marion (che noi sappiamo più che innocenti), ai motivi della sua indagine legati semplicemente al rinvenimento del denaro e solo in subordine a quello dell'eroina scomparsa. Tutto ciò fa di Arbogast un personaggio sgradevole e antipatico, col quale clifficilmente potrebbe scattare un'identificazione di tipo affettivo. Ma che gusto ci sarebbe a portare alla morte un personaggio della cui scomparsa lo spettatore potrebbe addirittura arrivare a godere? Che investimento psichico potremmo mettere in gioco nel vederlo salire quelle scale che lo portano direttamente fra le braccia dell'assassinalio? Ecco che allora si pone per Arbogast - ancor di più di quanto si poneva per Marion - la necessità della redenzione. Ed è così che, dopo la prima visita al motel, l'uomo corre a telefonare a Lila, quasi scusandosi dei suoi ingiusti sospetti e recuperando in questo modo la disponibilità ad un'identificazione affettiva da parte dello spettatore. Una volta purificatosi anche Arbogast è pronto al sacrificio. Il suo corpo verrà trafitto dallo stesso pugnale che già aveva ucciso Marion. (Potremmo qui notare come attraverso questo duplice omicidio di una donna e un uomo, Norman riperpetui quello originario della madre e del suo amante). La storia di Marion e Arbogast, strutturalmente costruita su un'identica organizzazione dei modi dell'identificazione, è così quella dell'impossibilità della redenzione, dell'inutilità del pentimento.

23) Arbogast ritorna al motel, penetra nella casa e viene ucciso
 Eccoli: dopo la prima visita al Bates Motel, Arbogast telefona e comunica i suoi sospetti. Dissolvenza della cabina pubblica sull'ingresso dei Motel. Il detective entra nell'ufficio: un corvo impagliato, il gufo e infine la cassaforte. Inutile perquisizione. Arbogast si dirige verso la casa, entra togliendosi il cappello: alternanza di “piani americani” di lui con visioni d'interno: l'ultima di queste è quella della scala. Arbogast sale, dalla porta dei ballatoio filtra un raggio di luce. Prospettiva dall'alto: Arbogast è sul ballatoio, mentre la porta, sull'estrema destra dei “quadro”, è completamente spalancata. Quattro fotogrammi sempre dall'alto: dal vano appare la stessa donna che ha assalito Marion. Con un coltello si getta su Arbogast: lo colpisce, mentre la scena si riflette, come un'ombra cinese, sul muro. Primo piano dei detective ferito: primo piano della sua bocca spalancata nell'urio. Altri quattro primi piani della sua “discesa” - spalle all'ingresso - della scala, visti in “soggettiva” dall'assassino. Dettaglio delle gambe che scivolano dal penultimo gradino. Cade a terra e vi giace supino: la donna gli è addosso. Quattro "lampi” dei coltello (sullo sfondo c'è una specchiera) che cala inesorabile sulla vittima. Norman sa che presto “profaneranno” il suo reliquario: rientra in casa, sale al primo piano, entra in una camera. Mentre la macchina da presa resta fuori, sulle inquadrature della scala e di una porta socchiusa, si svolge un concitato dialogo tra madre e figlio. La m.d.p. torna nella stessa posizione alta (dalla quale ha visualizzato l'omicidio di Arbogast) per “osservare” Norman che porta giù in braccio la madre, dopo averla trascinata. Dissolvenza in nero.
Ma le affinità elettive di Arbogast non riguardano solo il suo rapporto con Marion, bensì anche quello con Lila. Ripartiamo allora dalla seconda serie di soggettive che il film gli attribuisce, quelle che, come abbiamo già indicato, seguono il suo ingresso nella villa. Se gli sguardi del detective nel motel riportavano il film al suo passato, ricordandoci i precedenti sguardi di Marion, quelli nella villa lo proiettano invece verso il futuro, anticipando gli sguardi che Lila getterà all'interno della stessa casa. Secondo un modo di strutturazione del racconto tipico del cinema classico, gli sguardi di Arbogast nella scena del suo omicidio si configurano come un trampolino di lancio di quello che sarà il climax e lo scioglimento della storia: la scoperta da parte di Lila del corpo della madre di Norman e il salvataggio di Sam. Se è qui che il film deve arrivare, è necessario che il percorso che esso segue prepari accuratamente questo momento, attraverso un'intensificazione progressiva delle sue soluzioni di rappresentazione. Il percorso di  Arbogast e le sue soggettive all'interno della villa non saranno quindi altro - almeno sulla base di certe pertinenze - che un'introduzione al percorso, ben più articolato, e alle soggettive, ben più numerose, che Lila si vedrà attribuire quando si troverà nello stesso luogo in cui già si era trovato il detective. L'uso dell'ocularizzazione interna secondaria diventa così un elemento chiave dell'articolazione del crescendo drammatico del film. Ma Arbogast non è solo in questo senso un doppio di Lila (un doppio minore, potremmo dire: le poche soggettive dell'uno introducono alle tante soggettive dell'altra), lo è anche nella misura in cui fa scattare nello spettatore gli stessi meccanismi di identificazione narrativa in gioco anche nel rapporto con la donna. Le soggettive di Arbogast, così come quelle di Lila, non sono infatti che dei rafforzativi di quell'identificazione in qualche modo di base che lo spettatore vive nei confronti dei due personaggi a partire dal loro ruolo di indagatori. Arbogast e Lila, proprio come chi è dall'altra parte dello schermo, vogliono sapere e vedere, vogliono scoprire chi è quella donna che si nasconde nella casa vicino alla palude e di cui si è conosciuta solo la voce. Sono loro che possono aiutarci a soddisfare la nostra sete di conoscenze, sono loro che consentono al racconto di proseguire e alla narrazione di continuare a sedurci. E ancora una volta questa identificazione si sovrappone a un'altra uguale e contraria: quella che viviamo nei confronti di Norman. Da una parte chi nasconde le tracce di un duplice assassinio, dall'altra chi cerca di scoprirle. Attraverso questo complesso intrecciarsi di diversi modi dell'identificazione, che si danno nelle forme della successione e, soprattutto, in quelle della sovrapposizione, Psycho ci costringe ad un'esperienza interiore segnata da un'ambiguità bazinianamente vicina a quella offertaci dalla realtà. E se insistessimo di più sul realismo hitchockiano? E se cominciassimo a chiederci quanti 'pezzi di vita' (interiore) si nascondono dietro i suoi "pezzi di torta'?

24) Lila e Sam preoccupati per Arbogast

25) Sam al motel

26) Sam e Lila dallo sceriffo Chambers. Telefonano a Norman. Racconto sulla fine della madre di Norman e del suo amante


27) Bates in casa "parla con la mamma" e la porta in braccio in cantina


28) Sam e Lila ancora dallo sceriffo all'uscita della Messa.

29) Sam e Lila al motel si registrano

30) Sam e Lila in camera parlano riguardo ai sospetti su Bates

31) Sam  e Lila perquisiscono la camera n° 1

32) Sam cerca di intrattenere Bates

33) Lila penetra nella casa di Bates

34) Bates colpisce Sam e cerca di Uccidere Lila. Sam riesce a fermarlo

Sam e Lila arrivano al Motel: scoperta di un indizio. Sam distrae Norman. Lila guarda verso la casa. Alternanza - da campo lungo in primo piano - di Lila e dell'abitazione, con quest'ultima che diventa sempre meno sfuocata fino al “nitore” sinistro del suo portico. Lila osserva: ancora “campo e controcampo” della porta e del volto della ragazza. Lei vince il timore, spinge la maniglia: è dentro. Prova un ingresso a vetri: è chiuso. Stacco su Sam e Norman che discutono tranquillamente in ufficio. Lila sale le scale: è in una stanza da letto, ordinata, molto antica, zeppa di ninnoli: il guardaroba, il “calco” di due mani sotto uno specchio, su un cuscino. Lila alza gli occhi: vede due figure. Si volta impaurita. Era sempre la sua immagine, ripresa anche dalla specchiera alle spalle. Sul letto l'impronta di un corpo; stacco su Sam e Norman; Lila è salita di un piano, entra in uno stanzino: giradischi, sedia a dondolo e giocatto- li; un coniglietto di pezza è posato su una brandina sfatta; Norman sta chiedendo a Sam dov'è la donna; Lila scende le scale. Norman colpisce Sam alla testa con un barattolo e lo lascia sul pavimento, svenuto. Lila sente arrivare Norman e di corsa si rifugia nel sottoscala. Mentre l'uomo raggiunge il ballatoio, Lila s'accorge di una porta, entra nello scantinato. Due primi piani di Lila: “Signora Bates”: inquadratura di una donna con uno scialle, seduta faccia al muro. Mano di Lila su una spalia di lei: lenta ruotazione della “signora Bates” verso destra, fino a rivelare il profilo e poi il "totale” di un teschio “sorridente” e dalle orbite vuote. Lila urla e urta la lampadina che pende dal soffitto (e prende a oscillare). Nel vano della porta si staglia, questa volta pienamente illuminata, la donna che ha assassinato Marion e Arbogast. Alza il coltello e si lancia verso Lila che resta paralizzata dal terrore. Ma il braccio armato è bloccato dall'arrivo, da dietro, di Sam. Nella lotta si scopre che la “donna” è Norman. Inquadrature di Lila, dei due uomini che lottano, della parrucca caduta al giovane, per “staccare” sull'immagine dello scheletro.

35) Alla stazione di polizia lo psichiatra spiega le ragioni della doppia identità

36) Norman Bates è ormai "diventato" sua madre

Alla “County Court House”, in una stanza vuota, avvolto in una coperta, Norman è seduto contro una parete bianca. Ormai il figlio non esiste più: parla con la voce della madre. Dettaglio di una mosca che si è posata sul suo pollice, poi primo piano dei sorriso e doppia dissolvenza sul teschio e sull'auto di Marion che sta per essere “estratta”, dalle sabbie mobili. La “spirale” dei cinema di Hitchcock ha raccontato un “caso clinico” che le parole dei dottor Richmond spiegano secondo la dottrina psichiatrica. Ma questa “confessione” di verità era già esplosa sullo schermo nella “sinfonia” dello sguardo, nella splendida architettura barocca dei pensiero visivo, nelle sue costruzioni concentriche, dove il dramma della solitudine (Marion/Norman) degrada nella “distruzione” della famiglia, nell'impossibilità della coppia, nella sessualità negata. Psyco è la “favola” di una suspense dilatata parossisticamente e consegnata alle frementi soluzioni di una circolarità esemplare. I “topos” hitchcockchiani (gii specchi, le scale, le connotazioni dei personaggi) sono divorati da un montaggio franturnato e atomizzato in una composizione di “attrazioni” immediate e simboliche. La sequenza della doccia è l'accentuazione creativa dello slancio verso l'angoscia del “voyeur” e verso la sua catarsi, nella feroce fisicità dell'emozione.




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